Il prednisone (INN: prednisone) è un glucocorticoide semisintetico e ha una struttura chimica derivante dal cortisone, con introduzione di un doppio legame in posizione 1-2. La presenza di un doppio legame in questa posizione influisce notevolmente sulle proprietà farmacologiche del composto perché comporta un notevole aumento delle attività antiinfiammatorie e immunosoppressive e una riduzione degli effetti mineralcorticoidi.
Il farmaco di per sé non è attivo, ma viene metabolizzato a livello epatico nel suo metabolita attivo, il prednisolone.
Il prednisone possiede una durata d’azione intermedia rispetto a idrocortisone e desametasone; viene utilizzato in numerose patologie di natura infiammatoria.
L’attività antiinfiammatoria consiste nell’inibizione tissutale agli stimoli infiammatori (interazione degli anticorpi e dei linfociti con gli antigeni e liberazione di istamina e chinine).
Il prednisone mantiene l’integrità capillare impedendo la formazione di edemi, provocati dall’aumento di permeabilità indotta dall’istamina; previene la reazione dei macrofagi verso il fattore inibente la migrazione (MIF), rilasciato dai leucociti; inibisce la fagocitosi e digestione degli antigeni; stabilizza le membrane lisosomiali impedendo la liberazione di enzimi idrolitici.
L’attività immunosoppressiva del prednisone consiste nell’inibizione della crescita dei tessuti linfatici per interferenza con la sintesi proteica.
Il prednisone agisce con il meccanismo d’azione tipico dei corticosteroidi. Nel plasma si lega alla transcortina e, in parte, alle albumine sieriche. Dopo aver permeato la membrana cellulare, il prednisone si lega ad una glicoproteina recettrice situata nella frazione solubile del citoplasma. Il complesso prednisone-glicoproteina ha una forte affinità per il nucleo, e in questa sede, il prednisone stimola la sintesi proteica inducendo la trascrizione dell’m-RNA.
Nelle cellule linfatiche, in cui ha un effetto catabolico, sembra che stimoli la sintesi di una proteina inibitoria.
In 20 pazienti affetti da fibromialgia la somministrazione di prednisone (15 mg/die) non ha prodotto miglioramenti, anzi la maggior parte dei parametri considerati (dolore, disturbi del sonno, rigidità mattutina e affaticabilità) ha mostrato una tendenza al peggioramento con questa terapia in confronto al placebo (Clarcks et al., 1985).
La somministrazione orale giornaliera di ciclofosfamide e prednisone per un periodo medio di 12 settimane a 9 pazienti affetti da emofilia acquisita che presentavano gravi emorragie a causa di alti livelli di inibitori del fattore VIII ha portato alla completa remissione di tutti i pazienti testimoniata dalla perdita di attività degli inibitori e dal ritorno a livelli normali del fattore VIII (Shaffer, Phillips, 1997).
Il prednisone, somministrato a due ragazzi affetti da distrofia muscolare di Becker (malattia degenerativa delle fibre muscolari caratterizzata da bassi livelli di distrofina, proteina fondamentale per la salute dell’apparato muscolo-scheletrico, a causa di alterazioni genetiche), ha determinato una diminuzione dei livelli sierici di creatina chinasi (normalmente elevati in caso di distrofia muscolare) accompagnata da un significativo miglioramento della forza muscolare (Johnsen et al., 2001).
In caso di attacco acuto d’asma in pazienti pediatrici (2-18 anni), il desametasone (0,6 mg/Kg per os per 2 giorni) e il prednisone (2 mg/Kg per os per 5 giorni) dal punto di vista dell’efficacia appaiono equivalenti in quanto determinano simili tassi di ricaduta (7,4 vs 6,9%), di ospedalizzazione e persistenza dei sintomi dopo 10 giorni (22 vs 21%); se si considerano invece compliance ed effetti collaterali il trattamento con desametasone risulta preferibile (Qureshi et al., 2001).
La somministrazione di prednisone (da 1 a 5,8 mg/Kg a giorni alterni) a bambini e ragazzi affetti da artrite reumatoide ad insorgenza giovanile (n=20, 9 maschi, 11 femmine, età di insorgenza della malattia: 1,2-18,6 anni) ha portato alla scomparsa degli effetti sistemici della malattia (come febbre, rash, coagulopatia) e a miglioramenti negli indici di laboratorio di attività della malattia; gli effetti collaterali attribuibili alla terapia corticosteroidea, inclusa la soppressione della crescita, sono stati minimi (Kimura et al., 2000).
In pazienti (n=83) sottoposti ad impianto di stent nell’arteria coronarica e con marker di infiammazione sistemica persistentemente elevati dopo l’intervento (livelli di proteina C reattiva > 0,5 mg/dl 3 giorni dopo la procedura), la somministrazione di prednisone per os per 45 giorni, rispetto al placebo, ha aumentato il tasso di sopravvivenza libera da eventi (morte, infarto, nuova rivascolarizzazione) ad un anno ed ha diminuito la percentuale di ristenosi a 6 mesi e di perdita tardiva del lume (Versaci et al., 2002).
La somministrazione di prednisone (0,75 mg/Kg/die per 10 giorni al mese per 6 mesi) in bambini (n=17; età: 5-8 anni) deambulanti affetti da distrofia muscolare di Duchenne (malattia genetica che comporta l’assenza di distrofina, proteina fondamentale per la salute dell’apparato muscolo-scheletrico), ha rallentato il deterioramento della funzionalità e della forza muscolare, misurato attraverso il tempo necessario a percorrere 9 m di corsa e a salire 4 gradini di dimensioni standard, senza influire negativamente sulla qualità di vita dei pazienti (Beenakker et al., 2005).
Per i pazienti affetti da artrite reumatoide, è stata sviluppata una nuova formulazione di prednisone a rilascio modificato che, assunta alla sera prima di coricarsi, rilascia il farmaco nelle prime ore del mattino, quando i sintomi della malattia (tumefazioni, dolore, rigidità) sono più marcati, a causa delle oscillazioni circadiane (cioè che avvengono ciclicamente nelle 24 ore) della concentrazione di cortisolo e citochine pro-infiammatorie dell’organismo (in particolare interleuchina 6, 1, 12 e 2, interferone gamma e tumor necrosis factor alfa).
Nello studio “CAPRA-1” (Circadian Administration of Prednisone in Rheumatoid Arthritis-1), in cui sono stati arruolati 288 pazienti affetti da artrite reumatoide in stadio avanzato, la nuova formulazione di prednisone a rilascio controllato (5 mg), assunta alla sera, si è dimostrata più efficace della convenzionale formulazione a rilascio immediato assunta al mattino (5 mg), nel ridurre la durata della rigidità articolare mattutina (esito clinico primario) (-22,7% vs –0,4%, p=0.045). Al termine dello studio, durato 12 settimane, i pazienti trattati con prednisone a rilascio controllato hanno ottenuto una riduzione media della durata della rigidità articolare mattutina di circa 44 minuti rispetto al basale, con una differenza assoluta fra i due gruppi di trattamento di 29,2 minuti (IC 95% -2,59–61,09, p=0,072). Come esito clinico secondario, lo studio ha preso in considerazione l’andamento della concentrazione di interleuchina-6 (IL-6), il cui profilo è risultato strettamente correlato all’andamento, nelle 24 ore, dei sintomi artrosici (Cutolo, Straub, 2008; Cutolo et al., 2003). Nel gruppo trattato con prednisone a rilascio controllato, i livelli di interleuchina-6 sono diminuiti del 29% (differenza statisticamente significativa, p=0,002) rispetto a quelli osservati nel gruppo di controllo, rimasti fondamentalmente inalterati (Buttgereit et al., 2008).
Nello studio “CAPRA-2”, i pazienti che avevano completato lo studio CAPRA-1 hanno proseguito il trattamento con prednisone a rilascio controllato per ulteriori 9 mesi, in aperto, per verificare l’impatto della terapia corticosteroidea sul lungo periodo. Dopo 12 mesi, fase in doppio cieco più estensione in aperto, la riduzione della rigidità articolare diurna è diminuita del 46,1% (p<0,001), con una variazione media assoluta di 83,9 minuti. La riduzione dei livelli di IL-6 evidenziati nella prima fase dello studio (studio CAPRA-1) si sono mantenuti anche sucessivamente (studio CAPRA-2), confermando la correlazione fra questa citochina e la sintomatologia articolare. Dopo 12 mesi, la percentuale di pazienti che ha raggiunto un tasso di risposta ACR-20 (definito come almeno il 20% di miglioramento in un certo numero di criteri specifici della malattia) è stato del 37% (Buttgereit et al., 2009).
In caso di attacchi acuti di gotta, i farmaci antinfiammatori non steroidei e la colchicina sono i farmaci più raccomandati (Richette, Bardin, 2010); tuttavia, nei pazienti ipersensibili o non responsivi ad essi, oppure affetti da ipertensione non controllata, sanguinamento gastrointestinale, scompenso cardiaco, ulcera peptica, insufficienza renale, o in terapia con anticoagulanti, o con predisposizione a fenomeni emorragici, i corticosteroidi possono costituire una valida alternativa terapeutica (ISF, 2007).
La somministrazione contemporanea di prednisone (15 mg/die) e ciclofosfamide (50 mg/die) a pazienti affetti da mieloma multiplo (n=27, già trattati prima dell’arruolamento con 1-4 cicli chemioterapici, di cui 19 presentavano gravi patologie associate e 8 non erano disposti a continuare la chemioterapia convenzionale, a seguito di gravi infezioni associate ad essa) ha avuto un tasso di risposta globale (comprendente i casi di remissione completa, risposta parziale molto buona, risposta parziale) del 66,7% e un tempo medio di risposta di 2 mesi (Zhou et al., 2010).
In uno studio clinico recente è emerso un potenziale ruolo sinergico del prednisone verso i diuretici per il trattamento dello scompenso cardiaco sintomatico. Nello studio la terapia convenzionale per lo scompenso cardiaco è stata confrontata con la stessa terapia più prednisone. L’attività del prednisone è stata valutata a diversi dosaggi (basso = 15 mg/die; medio = 30 mg/die; alto = 60 mg/die) misurando alcuni parametri di funzionalità renale (flusso urinario, escrezione renale di sodio, concentrazioni di creatina, aldosterone e angiotensina II) in tempi differenti (basale, dopo 5 e 10 giorni di trattamento). Gli effetti del prednisone sulla diuresi sono risultati più evidenti a bassi dosaggi, mentre l’escrezione renale di sodio (natriuresi) è risultata più elevate alle dosi più alte di prednisone. Le concentrazioni sieriche di creatina, angiotensina II e aldosterone sono invece rimaste invariate, ad indicare che il meccanismo d’azione del prednisone sulla diuresi non coinvolge il sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAAS). Il prednisone sembra esercitare un’azione di regolazione dell’omeostasi del volume di fluido extracellulare aumentando l’espressione del recettore del peptide natriuretico (NPR-A) sia a livello centrale (ipotalamo), sia a livello periferico (rene). Poiché i neuropetidi agiscono aumentando la sintesi di guanosin monofosfato ciclico (GMPc), l’incremento del cGMP a livello renale nei pazienti con scompenso cardiaco trattati con prednisone, diventa, in questa condizione, un utile marcatore biologico dell’attività renale dell’NPR-A. I corticosteroidi potrebbero quindi costituire un potenziale trattamento dello scompenso cardiaco sintomatico perchè la loro azione diuretica, dose-indipendente, influenza il sistema renina-angiotensina-aldosterone, la cui attivazione comporta un peggioramento della funzionalità renale (Liu et al., 2015).