L’insulina è un ormone polipeptidico secreto dalle cellule beta del Langerhans localizzate nel pancreas, scoperto nel 1922. Svolge un ruolo fondamentale nell’omeostasi del glucosio ed è indicata nel trattamento del diabete.
Il diabete è una malattia cronica caratterizzata da elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) e dovuta ad una altera produzione endogena di insulina a causa della distruzione delle cellule beta del pancreas. Si distinguono due forme di diabete, il diabete di tipo 1 (DM1) insulino-dipendente, e il diabete di tipo 2 (DM2) non insulino-dipendente.
Il diabete di tipo 1 insorge nell’infanzia o nell’adolescenza ed è causato dalla distruzione progressiva delle cellula che producono l’insulina per cui l’ormone deve essere somministrato per via esogena per tutta la durata della vita. Poichè la velocità di distruzione delle cellule beta pancreatiche varia da individuo ad individuo, la manifestazione della malattia avviene ad età differenti. Dagli studi condotti sembra possibile una origine immunitaria del diabete di tipo 1: per cause ambientali o genetiche ad un cero punto le cellule beta pancreatiche vengono distrutte dal sistema immunitario (formazione di auto-anticorpi). Il trattamento insulinico in caso di DM1 è necessario per ridurre i sintomi immediati dell’iperglicemia (poliuria, polidipsia, chetoacidosi) e le complicanze tardive croniche (retinopatia, nefropatia, neuropatia, vasculopatie periferiche).
Il diabete di tipo 2 rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia. La sua oigine non è stata ancora definita. Nei pazienti con diabete di tipo 2, l’insulina viene sintetizzata dalle cellule pancreatiche ma le cellule dell’organismo non riescono ad utilizzarla. Il diabete di tipo 2 insorge in genere dopo i 40 anni, ma sono stati osservati casi in pazienti decisamente più giovani. Alcuni fattori favoriscono lo sviluppo della malattia: famigliarità (il 40% dei pazienti diabetici ha un parente di primo grado con la stessa malattia), aumento dell’età, obesità, sedentarietà.
Il diabete può determinare complicanze acute e croniche. Le complicanze acute sono più frequenti nel diabete di tipo 1 e sono rappresentate dal coma chetoacidosico dovuto all’accumulo di prodotti del metabolismo, i corpi chetonici, che causano perdita di coscienza, disidratazione e gravi alterazioni ematiche. Le complicanze croniche sono più frequenti nel diabete di tipo 2 e riguardano diversi organi, in particolare occhi (retinopatia diabetica), rene (nefropatia diabetica), cuore (malattie cardiovascolari), vasi sanguigni (piede diabetico) e nervi periferici (neuropatia diabetica). Il diabete rappresenta inoltre una condizione di rischio durante la gravidanza (malformazioni congenite, aumento della mortalità perinatale).
L’insulina esogena è ottenuta per estrazione dal pancreas di bue o di suino o tramite la tecnica del DNA ricombinante. L’estrazione da pancrea bovino, attualmente, non è più utilizzata. L’insulina ricombinante è costituita da 2 catene, la catena A di 21 aminoacidi e la catena B di 30 aminoacidi, legate da 2 ponti disolfuro. La catena A presenta un ponte disolfuro interno.
La struttura primaria dell’insulina varia con la specie: l’insulina umana è molto simile a quella suina. Le possibili differenze di struttura tra i vari tipi di insulina spiegano l’eventuale comparsa di anticorpi antinsulina responsabili di alcune insulino-resistenze. La presenza di questi anticorpi viene utilizzata in diagnostica per il dosaggio radio-immulogico dell’insulina. Inoltre, gli immunocomplessi anticorpi-insulina sembrano responsabili delle complicanze microangiopatiche connesse con il diabete.
La produzione di insulina fisiologica è pari a 18-40 U/die (0,2-0,5 U/Kg). Nei pazienti non diabetici, obesi e insulino resistenti, la secrezione di insulina può aumentare fino a 4 volte quella fisiologica.
La dose di insulina richiesta in caso di diabete di tipo I, cioè insulino-dipendente, è circa 0,6-0,7 U/Kg/die; in pazienti diabetici e obesi è pari a 2 U/Kg/die.
I valori di glicemia sono considerati normali, in pazienti adulti e pediatrici, quando a digiuno sono compresi fra 60 e 110 mg/dL negli adulti e quando non superano il valore di 150 mg/dL 2 ore dopo il pasto (glicemia postprandiale). Nei neonati, la glicemia a digiuno è normale quando rientra nell’intervallo 29-90 mg/dL. La glicemia si misura utilizzando l’emoglobina glicata sierica (HbA1c). L’emoglobina glicata sierica è formata dall’emoglobina A1 (che rappresenta circa il 96% dell’emoglobina presente nell’organismo) legata al glucosio ematico; il legame rimane stabile per 4-8 settimane e non è influenzato dalle variazioni giornaliere della glicemia. Nei soggetti non diabetici la concentrazione di emoglobina non glicata si mantiene attorno al 4-7%; nei pazienti diabetici la concentrazione di emoglobina glicata tende ad essere superiore al 7%: questo valore costituisce la soglia che permette di decidere se il controllo glicemico nel diabetico è corretto (HbA1c < 7) oppure insufficiente (HbA1c > 7). La riduzione della glicemia a valori corrispondenti a HBA1c < 7% permette di diminuire in modo significativo il rischio delle complicanze tardive legate al diabete: retinopatia, nefropatia, neuropatia.
Sulla base dei dati forniti dalla studio clinico DCCT (Diabetes Control and Complication Trial) è stata definita una correlazione fra i livelli di emoglobina clicata e la concentrazione ematica media di glucosio nel sangue (NEJM, 1993).
HbA1c (%) | Glicemia plasmatica media |
6 | 135 mg/dL |
7 | 170 mg/dL |
8 | 205 mg/dL |
9 | 240 mg/dL |
10 | 275 mg/dL |
11 | 310 mg/dL |
12 | 345 mg/dL |
L’azione ipoglicemizzante dell’insulina è dovuta a:
• blocco della secrezione epatica di glucosio (sola risorsa di glucosio intraprandiale) per inibizione della glucosio-6-fosfatasi;
• aumento della captazione di glucosio nel tessuto adiposo e muscolare striato.
A livello del fegato, le cui cellule sono permeabili al glucosio, l’insulina aumenta il consumo dello zucchero, per induzione della sintesi della glucochinasi, l’enzima che fosforila il glucosio in glucosio-6-fosfato. La fosforilazione è necessaria per il metabolismo cellulare del glucosio. L’insulina favorisce il catabolismo del glucosio-6-fosfato, secondo le diverse vie possibili: via di Embden Meyerhof, via dei pentosi e sintesi di glicogeno. Ne risulta un aumento della produzione di piruvato che è ossidato ad acetato. Quest’ultimo può, nel ciclo di Krebs, essere utilizzato nella sintesi di acidi grassi endogeni.
A livello del tessuto adiposo, le cui cellule sono poco permeabili al glucosio in assenza di insulina, l’ormone aumenta la captazione di glucosio. L’esochinasi, presente nell’adipocita, trasforma il glucosio in glucosio-6-fosfato, che viene successivamente convertito in aglicerolfosfato. Ne risulta un aumento della liposintesi, poiché l’aglicerolfosfato esterifica gli acidi grassi liberi plasmatici captati dagli adipociti. L’insulina blocca anche la lipolisi negli adipociti per inibizione della lipasi conseguente a riduzione della concentrazione di cAMP.
A livello del tessuto muscolare, l’insulina aumenta la permeabilità delle membrane delle cellule muscolari al glucosio che, fosforilato dall’esochinasi, può essere degradato secondo la via anaerobica oppure immagazzinato sotto forma di glicogeno.
L’insulina inibisce la neoglucogenesi epatica poiché blocca gli enzimi chiave, facilita il passaggio degli aminoacidi attraverso la membrana e aumenta la sintesi proteica stimolando la traduzione ribosomiale.
Le molteplici azioni metaboliche dell’insulina sono quindi mediate da modificazioni di alcuni enzimi e, forse, da attivazione o inibizione della trascrizione genetica (Muller et al., 1984; Strauss, Takemoto, 1987).
Il meccanismo d’azione dell’insulina è connesso quindi alla sua capacità di fosforilare e defosforilare alcune proteine enzimatiche: glicogeno sintetasi e fosforilasi, piruvato deidrogenasi, HMG-CoA reduttasi vengono defosforilate; acetilCoA carbossilasi, ATP citrato liasi, proteina ribosomiale S6 vengono invece fosforilate. È stata infatti evidenziata la presenza di un’attività chinasica associata al recettore per l’insulina.
Il recettore per l’insulina è una glicoproteina integrale di membrana a struttura tetramerica costituita da 2 tipi di subunità: 2 subunità a che legano l’insulina con elevata affinità e specificità; 2 subunità b che possiedono attività fosfotransferasica e sono esse stesse oggetto di fosforilazione da parte del recettore. Le subunità a sono di dominio esclusivamente extracellulare, le b contengono una sequenza transmembrana e, nel citoplasma, gli elementi di una proteinchinasi tirosina specifica.
L’insulina si lega alla subunità a, con conseguente attivazione della tirosinchinasi localizzata nella subunità b e quindi autofosforilazione del recettore e fosforilazione di altri substrati: proteine del citoscheletro ed enzimi regolatori del metabolismo del glucosio (Sale et al., 1987).
Poiché molte delle proteine vengono fosforilate non sulla tirosina, ma su serina e treonina, è presumibile che intervengano più chinasi (Cordera et al., 1988). È stato, quindi, ipotizzato che il recettore per l’insulina sia legato a una G proteina che fosforila il residuo tirosinico di alcune proteine che a, loro volta, attivano o inattivano chinasi e fosfatasi coinvolte nelle diverse tappe finali dell’azione dell’insulina.
Sono stati individuati recettori per l’insulina anche sulla membrana nucleare.
L’insulina umana è disponibile in preparazioni differenti per inizio della comparsa d’azione (tempo di latenza), per valore di picco e per durata dell’effetto ipoglicemizzante e vengono classificate come insulina a breve, intermedia e lunga durata d’azione:
1) Insulina a breve durata d’azione: insulina non modificata, solubile, chiamata anche “insulina regolare” e identificata con il simbolo R. E’ l’insulina con l’inizio d’azione più rapido e minor durata. E’ l’unica che può essere somministrata, oltre che per via sottocutanea, anche per endovena o per via intramuscolare. E’ l’unica forma di insulina adatta per essere somministrata in caso di coma diabetico e di intervento chirurgico. Somministrata sottocute, presenta tempo di latenza paria a 30 minuti; picco fra la 2a e la 4a ora; durata dell’azione ipoglicemizzante pari a circa 8 ore. Somministrata per endovena presenta tempo di latenza pari a 5 minuti e durata pari a 30 minuti.Appartiene al gruppo delle insuline umane a rapida azione anche l’insulina somministrata per via inalatoria approvata nel 2014 negli USA (specialità medicinale Afrezza). Si tratta di un’insulina umana ottenuta con la tecnica del DNA-ricombinante da ceppi di Escherichia coli (K12) e assorbita su particelle di fumaril dichetopiperazina e polisorbato 80. L’insulina inalatoria ha un tempo di latenza di circa 15 minuti, deve essere somminstrata all’inizio del apsto o entro i primi venti minuti.
2) Insulina a durata d’azione intermedia: insulina umana regolare in sospensione o legata a proteine (protamina) o elementi (complessi con lo zinco) che ne rallentano il rilascio o ne aumentano la dimensione. Appartengono a questo gruppo l’insulina isofano anche chiamata insulina NPH, l’insulina zinco protamina, l’insulina zinco amorfa sospensione.
3) insulina a lunga durata d’azione: l’insulina è formulata in modo da avere un inzio d’azione molto lento e prolungato nel tempo (“piatto”). L’insulina a lunga durata d’azione non presenta un picco d’azione. La determinazione della dose dell’insulina a lunga durata d’azione è difficoltosa perchè sono necessari diversi giorni per ottenere una concentrazione costante di insulina circolante. Appartiene a questo gruppo l’insulina zinco sospensione cristallina, chiamata anche insulina ultralenta.
4) insuline bifasiche o intermedie: queste formulazioni contengono insulina solubile e insulina isofano in rapporti differenti (la concentrazione di insulina solubile varia tra il 10 e il 50%) (insuline bifasiche) oppure insulina zinco amorfa sospensione e insulina zinco cristallina in proporzioni differenti (insuline intermedie).
Le insuline ad azione intermedia o lunga presentano un tempo di latenza di 1-2 ore, un picco compreso fra la 4a ora e la 12a ora e una durata di 16-35 ore. Le insuline bifasiche o intermedie presentano valori intermedi fra quelli dell’insulina rapida e delle insuline intermedie o lunghe.
Sia le insuline a durata d’azione intermedia o lunga sia quelle bifasiche sono formulate come sospensioni che tendono a precipitare o sedimentare ed è necessario quindi uniformare la sospensione prima di iniettare l’insulina. Alcuni dispositivi presentano all’interno della cartuccia contenente l’insulina una pallina di vetro che scorrendo all’interno della fiale agevola il processo di risospensione.
Resistenza all’insulina endogena
Numerose cause possono portare a una ridotta azione dell’insulina: riduzione del segnale ormonale (insulinopenia, insulina anomala), difetto recettoriale acquisito (obesità) e, più di rado, primario (probabilmente genetico), alterazione del legame con il recettore quali alterata attività chinasica (obesità, diabete di tipo 2), alterazione degli eventi post-recettoriali (Freychet, 1987).
Resistenza all’insulina esogena
Molti pazienti sviluppano anticorpi che raramente interferiscono con il trattamento; in qualche caso può essere necessario un aumento del dosaggio di insulina. L’uso di insuline molto purificate riduce l’incidenza della formazioni di anticorpi.
Insulina e alzheimer
La malattia di alzheimer è una patologia neurodegenerativa caratterizzata da perdita di memoria e delle funzioni cognitive. I tessuti cerebrali dei pazienti affetti da alzheimer presentano placche formate dalla deposizione di una proteina, la proteina beta amilode, e fasci di fibre aggrovigliate chiamati viluppi neuro-fibrillari. Poichè nelle fasi iniziali della malattia è stato osservato un deficit del metabolismo energetico e una ridotta utilizzazione del glucosio, è stato ipotizzato che un alterato segnale dell’insulina possa svolgere un ruolo nella patogenesi dell’Alzheimer. Studi preliminari hanno evidenziato una ridotta espressione dei geni codificanti per l’insulina e i fattori di crescita insulino simili IGF-I e IGF-II e per i recettori insulinici, suggerendo una causa neuroendocrina della malattia con caratteristiche similari al diabete (“diabete di tipo 3”) (Steen et al., 2005).
A sostegno dell’ipotesi di un possibile ruolo nello sviluppo della malattia di alzheimer, è stato riportato come la somministrazione di insulina a persone anziane sane determini un aumento nel liquido cerebrospinale dei livelli di proteina beta amiloide, in particolare nei soggeti con più di 70 anni di età, e un miglioramento della memoria dichiarativa, anche se questo effetto è risultato inferiore nelle persone che presentavano i maggiori aumenti di beta amilide (Watson et al., 2003).
Trattamento insulinico e complicanze tardive del diabete di tipo 1
Il controllo stretto della glicemia tramite terapia intensiva insulinica riduce l’incidenza delle complicanze tardive del diabete. In pazienti con DM1 diagnosticato da 1 a 15 anni, la somministrazione di insulina 3 volte/die associata ad un monitoraggio continuo della glicemia, oltre ad esercizio fisico e regime dietetico, ha determinato una riduzione della progressione della retinopatia (3 o 4 stadi) del 76% rispetto ai pazienti trattati con regime convenzionale (1-2 somministrazione/die di insulina con monitoraggio della glicemia una volta/die) dopo 6,5 anni di trattamento (NEJM, 2000). Questi stessi pazienti sono stati sottoposti a monitoraggio per ulteriori 8 anni: la probabilità di progressione della retinopatia è diminuita del 75% e la differenza fra i due gruppi è stata progressiva, in aumento anno dopo anno. Analoghi risultati sono stati ottenuti per la nefropatia. Nello studio durato 6,5 anni, l’incidenza di microalbuminuria nei pazienti in terapia insulinica intensiva è stata del 5% vs l’11% nel gruppo di confronto (riduzione del 53%). Nei successivi 8 anni la riduzione dei casi di microalbuminuria fra i due gruppi è risultata pari al 59% (6,8% vs 15,8%), confermando i dati osservati dopo i primi 6,5 anni; la riduzione di albuminuria clinica è stata pari all’84% (1,4% vs 9,4%), mentre era stata pari al 57% dopo i primi 6,5 anni. Dai dati clinici dei due studi è emerso inoltre come i benefici clinici osservati con la terapia insulinica intensiva si siano manifestati dopo 3-4 anni di trattamento e con un’efficacia maggiore nei pazienti con diabete da meno di 5 anni ad indicare l’importanza di un inizio precoce della terapia da mantenere quanto più a lungo possibile (NEJM, 2000; JAMA, 2003).
Trattamento insulinico in pazienti con diabete di tipo 2
Nei pazienti con diabete di tipo 2, l’insulina è indicata quando il controllo della glicemia non è ottimale al dosaggio massimo dei farmaci ipoglicemizzanti impiegati. Inizialmente l’insulina viene somministrata alla sera come insulina ad azione intermedia (ad es. insulina NPH) per migliorare il controllo glicemico, in particolare il picco notturno di glucosio di origine epatica. Se con questo schema persiste l’iperglicemia diurna o l’iperglicemia si presenta posticipata, somministrare una seconda dose di insulina. Se l’iperglicemia tende a peggiorare o a manifestarsi nel tardo pomeriggio-sera, la seconda dose di insulina dovrebbe contenere sia insulina rapida (insulina regolare) sia insulina NPH. Se l’iperglicemia si manifesta in tarda serata, la seconda dose di insulina dovrebbe contenere prevalentemente insulina regolare.
Una grossa parte dei pazienti con diabete di tipo 2 rientra nella categoria dei pazienti anziani che spesso presentano comorbidità. La terapia insulinica pertanto si sovrappone ad altri trattamenti farmacologici, in particolare farmaci antipertensivi. Fra questi, i beta bloccanti possono aumentare il rischio di ipoglicemia e gli ACE inibitori possono favorire l’insulino-resistenza.
Trattamento perioperativo del paziente diabetico
Durante l’intervento chirurgico, la richiesta insulinica varia perché tendono ad aumentare fattori chiamati contro-regolatori quali glucagone, adrenalina, cortisolo e ormone della crescita la cui risultante è quella di frenare la produzione endogena di insulina e di aumentare la resistenza insulinica dei tessuti periferici, di attivare la produzione di glucosio epatico (con la gluconeogenesi e la glicogenolisi), di stimolare il catabolismo proteico e lipidico e predisporre alla ketosi. Lo squilibrio glicemico nel diabetico favorisce inoltre lo sviluppo di infezioni postoperatorie.
Nel paziente con diabete di tipo 1, cioè insulino-dipendente, in caso di intervento chirurgico, il trattamento insulinico richiede la somministrazione continua di insulina per via endovenosa, utilizzando come dose/die la stessa somministrata per via sottocute nelle 24 ore. Il consumo della stessa dose per via endovenosa invece che sottocute non incorre nel rischio di sovradosaggio perché, da un lato, lo stress dell’intervento chirurgico aumenta il fabbisogno insulinico e, dall’altro, il paziente è trattato anche con glucosio in infusione ev. La terapia insulinica in infusione continua, durante intervento chirurgico, richiede il monitoraggio della glicemia almeno ogni ora fino a stabilizzazione dei valori di glicemia, quindi ogni 2 ore.
Nel paziente diabetico di tipo 2, caratterizzato da una insufficiente produzione insulinica, il trattamento perioperativo presenta qualche variabile in più, dovuto al passaggio dalla terapia con ipoglicemizzanti orali all’infusione ev. di insulina. Il trattamento insulinico durante l’intervento chirurgico è sostanzialmente analogo a quello del paziente con diabete di tipo 1; in aggiunta deve essere deciso quando sospendere i farmaci antidiabetici orali e quando reintrodurli.
Gli antidiabetici orali quail le sulfaniluree e i secretagoghi non sulfanilureici devono essere sospesi la sera precedente l’intervento chirurgico (ultima dose con il pasto serale). Indicazioni particolari devono essere adottate per la metformina. Questo farmaco infatti non agendo sul rilascio dell’insulina, ma sulla produzione di glucosio epatico, possiede un rischio relativamento basso di ipoglicemia, mentre è associato a rischio di acidosi lattica soprattutto in pazienti con insufficienza renale anche lieve. L’acidosi lattica da metformina è rara, ma ha una mortalità elevata (50%). Poichè per una eliminazione completa del farmaco dall’organismo sono necessarie quasi 24 ore, si consiglia di sospendere la somministrazione del farmaco 24 ore prima dell’intervento chirurgico (Blyer, Yelon, 2007), anche se alcuni autori consigliano la sospensione 3 giorni prima dell’intervento (Mercker et al., 1997), 2 giorni prima (Alberti, 1991) o lo stesso giorno (Lustik et al., 1998). La metformina deve essere reintrodotta con la ripresa dell’alimentazione del paziente e dopo aver controllato la creatininemia. I tiazolidinedioni (rosiglitazone e pioglitazone) e l’acarbosio possono essere interrotti lo stesso giorno dell’intervento chirurgico.
Trattamento insulinico nelle Unità di Terapia Intensiva
L’insulina è utilizzata in terapia intensiva per il trattamento di pazienti con grave sepsi per mantenere l’omeostasi glicemica e ridurre eventuali danni, soprattutto a carico cerebrale, dovuti ad una cattiva regolazione nell’apporto di glucosio ai tessuti. Il cervello consuma circa il 40% del glucosio utilizzato dall’intero organismo in condizioni di riposo. I limiti di normalità della glicemia sono stati fissati fra 50 e 220 mg/dL: valori inferiori a 50 mg/dL indicano una condizione di ipoglicemia grave, valori superiori a 220 mg/dL indicano una condizione di iperglicemia grave. In realtà la soglia glicemica sotto la quale si attivano processi tissutali dannosi dipende da diversi fattori ed è più alta nei pazienti diabetici rispetto ai non diabetici. I pazienti ricoverati nelle Unità di Terapia Intensiva tendono a manifestare iperglicemia, anche se non diabetici, per via dello stress a cui sono sottoposti. In questi pazienti infatti l’uptake del glucosio nei tessuti periferici sensibili all’insulina è ridotto, mentre la produzione di glucosio endogeno è aumentata (diabete da stress o diabete da lesione) (McCowen et al., 2001). In particolare l’iperglicemia in pazienti con ictus ischemico, emorragia cerebrale o trauma cranico è associata ad un aumento di morbilità e mortalità (Pulsinelli et al., 1983; Scott et al., 1999; Bhalla et al., 2003; Kimura et al., 2007).
Attualmente il controllo glicemico nei pazienti in Terapia Intensiva viene perseguito con la somministrazione di insulina in regime convenzionale (target glicemico compreso fra 180-200 mg/dL corrispondente ad un livello medio di glucosio ematico di 150-160 mg/dL –livelli sono considerati ancora iperglicemia) oppure in regime intensivo (target glicemico compreso fra 80 e 110 mg/dL corrispondente a livelli medi di glucosio ematico di 90-100 mg/dL – livelli di normoglicemia). Gli studi clinici che hanno confrontato i due diversi trattamenti hanno dato esiti di mortalità e morbidità non univoci.
Alcuni studi clinici hanno evidenziato, nei pazienti critici, come un controllo della glicemia stretto, cioè compreso fra 80-110 mg/dL, sia associato ad una prognosi più favorevole in termini di mortalità e morbidità (soprattutto pazienti cardiochirurgici), ma ad un rischio maggiore di ipoglicemia grave (Van den Berghe et al., 2001; 2005; 2006; 2006a). Nei pazienti sottoposti a interventi chirurgici complicati o estesi o dopo trauma, trattati con terapia insulinica intensiva, la mortalità nelle Unità di Terapia Intensiva era diminuita del 43% e la mortalità ospedaliera era passata dal 10,9% al 7,2% con benefici maggiori nei pazienti sottoposti a ricovero prolungato. Risultavano significativamente diminuiti le infezioni ematiche (-46%), il ricorso a dialisi o emofiltrazione (-41%), lo sviluppo di batteriemia (-46%), l’incidenza di polineuropatia da malattia critica (-44%) e il numero di trasfusioni con emazie (-50%) (Van den Berghe et al., 2001). Nei pazienti con lesione cerebrale il controllo stretto della glicemia aveva ridotto l’incidenza di eventi acuti secondari e aveva migliorato la riabilitazione a lungo termine (Van den Berghe et al., 2005). Analoghi risultati sono stati evidenziati in pazienti ricoverati in Terapia Intensiva per sepsi: l’infusione intensiva di insulina ha diminuito mortalità (passata dal 52,3% al 43% nei pazienti con più lungo ricovero) e migliorato la morbidità (minor incidenza di lesioni renali, riduzione della ventilazione meccanica, riduzione dei tempi di degenza). In questi pazienti, il controllo glicemico stretto non è risultato in grado di prevenire le infezioni del sangue indicando che la riduzione della mortalità indotta dalla terapia insulinica intensiva molto probabilmente non passa attraverso questa via (Van de Berghe et al., 2006a).
Alcuni studi hanno evidenziato come l’ipoglicemia severa (< 40 mg/dL) sia correlata ad incremento della mortalità e rappresenti un fattore di rischio per esiti sfavorevoli. Diversi studi clinici hanno evidenziato come la terapia insulinica intensiva, oltre a comportare un aumento del rischio ipoglicemico, non determini benefici aggiuntivi, rispetto alla terapia insulinica convenzionale, per morbilità e mortalità (incremento del rischio di ictus a 30 giorni nei pazienti sottoposti ad interventi di cardiochirurgia; aumento dell’incidenza di gravi effetti avversi in pazienti con sepsi) (Krinsley et al., 2007; Gandhi et al., 2007; Brunkhorst et al., 2008). Un’influenza positiva fra stretto controllo glicemico (80-110 mg/dL) e mortalità (nel senso di una riduzione di questo parametro) è stato provato solo per i pazienti cardiochirurgici (per questi pazienti l’infusione insulinica intensiva è raccomandata in associazione a quella di glucosio e potassio (Canadian Diabetes Association, 2003).
Nello studio clinico VISEP pazienti con sepsi sono stati randomizzati a ricevere terapia intensiva con insulina (glicemia media: 112 mg/dL) o terapia insulinica convenzionale (glicemia media: 151 mg/dL). Dopo 28 giorni la mortalità non differiva in modo significativo tra i due gruppi di pazienti, mentre l’incidenza di ipoglicemia era risultata più alta nei pazienti in terapia con insulina (17% vs 4%) così come l’incidenza di effetti collaterali gravi (10,9% vs 5,2%) (Brunkhorst et al., 2008). Analoghi risultati sono stati espressi da una metanalisi relativa a 29 trial clinici per più di 8000 pazienti (Wiener et al., 2008). La mortalità è risultata sovrapponibile utilizzando la terapia insulinica intensiva oppure la terapia insulinica convenzionale sia considerando complessivamente i pazienti (21,6% vs 23,3%, RR=0,93 95% CI 0,85-1,03) sia suddividendoli a seconda del target glicemico raggiunto (glicemia < or = 110 mg/dL; 23% vs 25.2%; RR, 0.90; 95% CI, 0.77-1.04; glicemia < 150 mg/dL; 17.3% vs 18.0%; RR, 0.99; 95% CI, 0.83-1.18) o del tipo di unità di cura intensiva (chirurgica: 8.8% vs 10.8%; RR, 0.88; 95% CI, 0.63-1.22; medica: 26.9% vs 29.7%; RR, 0.92; 95% CI, 0.82-1.04; medico-chirurgica: 26.1% vs 27.0%; RR, 0.95; 95% CI, 0.80-1.13). La terapia insulinica intensiva non ha ridotto in modo significativo il ricorso ex novo alla dialisi (11.2% vs 12.1%; RR, 0.96; 95% CI, 0.76-1.20), ma è stata associata ad una riduzione significativa della setticemia (10.9% vs 13.4%; RR, 0.76; 95% CI, 0.59-0.97), e ad un aumento significativo del rischio di ipoglicemia (glicemia < or= 40 mg/dL; 13.7% vs 2.5%; RR, 5.13; 95% CI, 4.09-6.43).
Nello studio clinico NICE-SUGAR (Normoglycemia in Intensive care Evaluation-Survival Using Glucose Algorithm Regulation), il controllo glicemico stretto (target glicemico compreso fra 81 e 108 mg/dL pari a 4,5-6,0 mmoli/L di glucosio ematico) è risultato aumentare la mortalità nei pazienti ricoverati in Terapia Intensiva rispetto ad un controllo glicemico più blando (target glicemico pari a 180 mg/dL uguale o inferiore a 10 mmoli/L di glucosio ematico). L’end point primario era rappresentato dalla mortalità a 90 giorni. La mortalità è risultata pari al 27,5% nel gruppo sottoposto a controllo glicemico stretto e pari al 24,9% nel gruppo sottoposto a controllo glicemico convenzionale. L’incidenza di ipoglicemia grave (glicemia </= a 40 mg/dL) è risultata pari al 6,8% vs 0,5% rispettivamente nei pazienti sottoposto a controllo glicemico stretto e nei pazienti sottoposti a controllo glicemico convenzionale. Fra i due gruppi di trattamento non sono state riscontrate differenze per quanto riguarda il numero di giorni trascorsi in Terapia Intensiva, la durata complessiva del ricovero osepdaliero, il ricorso a ventilazione meccanica o a dialisi (NICE-SUGAR Study Investigators, 2009).
Trattamento insulinico in caso di diabete gestazionale
Il diabete gestazionale interessa circa il 5-7% delle donne in gravidanza. Un diabete non controllato durante la gravidanza determina un rischio maggiore di aborto, ipertensione e nefropatia per la donna e un rischio aumentato di 4 volte per mortalità, nascita pretermine, malformazioni, sindrome metabolica a lungo termine per il feto. Attualmente solo il 40-60% delle donne diabetiche presenta un controllo ottimale della glicemia durante la gravidanza.
L’insulina umana sottocutanea è stata confrontata con l’insulina aspart nel trattamento del diabete di tipo 1 in donne in gravidanza. L’insulina aspart è risultata migliore nel controllare il picco glicemico postprandiale nel primo e nel terzo trimestre di gravidanza. Il picco glicemico si manifesta circa 70 minuti dopo il pasto e, mentre l’insulina umana presenta un picco d’azione tra le 2 e le 4 ore, l’insulina aspart presenta un picco tra la prima e la seconda ora. Nel gruppo trattato con l’analogo insulinico inoltre gli episodi di ipoglicemia grave sono risultati inferiori del 28% rispetto alle donne trattate con l’insulina umana (Mathiesen et al., 2007).
Trattamento insulinico e insufficienza cardiaca
Il trattamento insulinico sembrerebbe associato ad un aumento del rischio di insufficienza cardiaca congestizia. In pazienti con diabete di tipo 2, la monoterapia con insulina esogena è risultata associata ad un rischio maggiore di insufficienza cardiaca rispetto alla monoterapia con sulfonilurea o metformina e questo trend è stato riscontrato anche nei pazienti trattati con insulina in associazione a sulfonilurea/metformina rispetto ai pazienti in terapia combinata con sulfonilurea e metformina (18th Congresso of the International Diabetes Federation, 2003).
in analogia con quanto osservato è stato evidenziato come i pazienti con insulino-resistenza e insufficienza cardiaca presentino una prognosi peggiore e una patologia più grave. L’insulino-resistenza inoltre è collegata al diabete e all’obesità, che rappresentano fattori di rischio predeterminanti per l’insufficienza cardiaca congestizia. In pazienti con patologia valvolare di partenza, ma senza insufficienza cardiaca congestizia (età media =/> 70 anni, sesso maschile), l’insulino-resistenza è risultato fattore predittivo di insufficienza cardiaca indipendentemente dal diabete e da altri fattori di rischio per la patologia cardiaca (Ingelsson et al., 2005).
Insulina transdermica
Sono disponibili studi preliminari per la somministrazione transdermica dell’insulina. Questa via di somministrazione è resa possibile dalla disponibilità di insulina monomerica ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante. L’insulina umana infatti presenta dimensioni che non permettono l’assorbimento transdermico. L’applicazione di un cerotto contenente insulina 840 UI per 8 ore, nella parte superiore del braccio, a pazienti con diabete di tipo 1 è stata associata ad una minor richiesta di insulina sottocutanea rispetto al gruppo placebo (1,82 UI vs 2,17 UI). La riduzione del consumo di insulina per via sottocutanea era risultata evidente già dopo 2 ore dall’applicazione del cerotto (18° Congresso IDF, 2003).
Insulina orale
Studi clinici preliminari hanno indagato la possibilità di somministrare l’insulina per via orale in pazienti diabetici. In pazienti con diabete di tipo 2, l’insulina orale (esil-insulina monoconiugata 2 (HIM2) 0,375 - 0,5 - 1,0 mg/kg) è stata confrontata con insulina sottocutanea (8 unità di Humulin R) e placebo. L’insulina orale è risultata efficace quanto l’insulina parenterale sulla concentrazione glicemica nelle 2 ore postprandiali, sulla concentrazione glicemica massima postprandiale e sull’AUC (0-240 minuti) del glucosio (AUC: 1097,1 vs 1048,0 vs 1196,7 mg/h/dL rispettivamente con insulina orale 0,5 mg/kg, insulina sc. e placebo; 801,1 vs 875,2 vs 992,1 mg/h/dL rispettivamente con insulina orale 1,0 mg/kg, insulina sc. e placebo). Le concentrazioni periferiche di insulina sono risultate più basse con l’insulina orale, 0,5 e 1,0 mg/kg, rispetto all’insulina parenterale (AUC 0,240 minuti: 163,1 vs 233,6 e 230,8 vs 270,3 microU/h/ml) (Kipnes et al., 2003).
In pazienti con diabete di tipo 1, l’insulina orale somministrata in formulazione spray ha evidenziato un inizio d’azione più rapido, ma una durata d’azione inferiore rispetto all’insulina rapida sottocutanea (0,1 UI/kg), evidenziando comunque una relazione dose-risposta per quanto riguarda assorbimento ed effetti metabolici. I parametri farmacocinetici considerati hanno compreso: picco plasmatico dell’insulina, AUC dell’insulina a 120, 240 e 360 minuti e il tempo di picco plasmatico insulinico. Quest’ultimo è risultato pari a 26,7 vs 29,2 vs 23,3 vs 142,5 minuti rispettivamente con insulina orale spray 5, 10 e 20 puff e insulina sottocutanea. I parametri di farmacodinamica hanno compreso la velocità di infusione massima di glucosio (GIR), l’AUC del glucosio a 120, 240 e 360 minuti e i tempi di dimezzamento, precoce e tardivo, della velocità di infusione del glucosio (T50% precoce e tardivo). Questi ultimi due parametri danno un’indicazione del tempo di inzio dell’azione farmacologica (T50% precoce) e della durata dell’azione (T50% tardivo) dell’insulina (T50% precoce: 23,3 vs 28,3 vs 31,2 vs 87,0 min rispettivamente per l’insulina spray 5, 10 e 20 puff e per l’insulina sottocutanea; T50% tardivo: 56,5 vs 70,2 vs 75,5 vs 290,8 min rispettivamente per l’insulina spray 5, 10 e 20 puff e per l’insulina sottocutanea) (Cernea et al., 2005).
La formulazione spray orale di insulina ha evidenziato un profilo di tollerabilità accettabile. In alcuni pazienti con diabete di tipo 1 e in alcuni volontari sani, l’uso della formulazione spray è stato accompagnato dalla comparsa di lievi vertigini/capogiri, transitori e autolimitanti (Pozzilli et al., 2010).
Nel 2014 è stata autorizzata negli USA l’insulina inalatoria, specialità medicinale Afrezza, per il trattamento del diabete mellito in pazienti adulti. Si tratta di una formulazione di insulina umana rapida da somministrare con apposito device al momento del pasto o entro i primi venti minuti. Nei pazienti con diabete di tipo 1 deve essere associata ad insulina a lunga durata d’azione.
Gli studi clinici di efficacia e tollerabilità hanno coinvolto più di 3000 pazienti, circa 1000 con diabete di tipo 1 e i restanti con diabete di tipo 2 per un massimo di 24 settimane. Nei pazienti con diabete di tipo 1, l’insulina inalatoria è stata confrontata con insulina aspart. Dopo 24 settimane di trattamento con insulina inalatoria e insulina basale, la riduzione media di emoglobina glicata è risultata “non inferiore” rispetto a quella osservata nel gruppo di confronto (studio di “non inferiorità”). L’insulina inalatoria è stata associata ad una minore riduzione di emoglobina glicata rispetto all’insulina aspart, e la differenza è risultata statisticamente significativa. Nel gruppo trattato con insulina inalatoria la percentuale di pazienti che ha raggiunto il target di emoglobina glicata =/< 7% è stata minore (13,8% vs 27,1%). Nei pazienti con diabete di tipo 2, dopo 24 settimane la combinazione di insulina inalatoria più farmaci antidiabetici è stata associata ad una riduzione maggiore dell’emoglobina glicata rispetto al gruppo di confronto trattato con placebo per via inalatoria più farmaci antidiabetici. I pazienti con emoglobina glicata =/< 7% sono risultati più numerosi nel gruppo trattato anche con insulina (32,2% vs 15,3%) (Food and Drug Administration - FDA, 2014 e 2014a).
Trattamento insulinico e Doping
L’insulina è considerata in ambito sportivo un ormone anabolizzante per la sua azione anticatabolica sulla degradazione delle proteine. Il suo impiego da parte degli atleti è finalizzato a migliorare la performance sportiva e la resistenza alla fatica e allo stress fisico che viene ottenuto attraverso l’aumento della massa muscolare, della forza e dei depositi di glicogeno. Come anabolizzante, l’insulina è assunta alla dose di 10 UI (insulina rapida) 2 volte al giorno oppure 20-40 minuti dopo ogni sessione di allenamento. Poichè l’insulina tende a formare grasso, spesso è associata ad un farmaco lipolitico (in grado cioè di “bruciare” i grassi) come il clenbuterolo, beta 2 agonista, o gli steroidi anabolizzanti.
L’uso di insulina come anabolizzante espone l’atleta ad un aumento significativo del rischio di ipoglicemia per periodi prolungati e potenzialmente a rischio di coma e morte. Gli effetti collaterali tardivi in pazienti non diabetici che fanno uso continuato di insulina non sono noti.
Dispositivi per la somministrazione dell’insulina
Siringa: sono disponibili siringhe diverse in funzione del diametro e lunghezza dell’ago e della quantità di insulina da somministrare. Il diametro dell’ago da insulina è misurato in gauge: tanto maggiore è il numero di gauge tanto più fine è l’ago. La lunghezza dell’ago è importante perchè influenza l’assorbimento sottocutaneo dell’insulina.
Penna per l’insulina: le penne possono essere di due tipi, con ricambio della cartuccia oppure usa-e-getta. L’ago della penna è sottile e corto. Con la penna da insulina è possibile selezionare la dose che deve essere somministrata, tramite la rotazione di un piccolo quadrante. Una volta selezionata la dose, si inserisce l’ago sottocute quindi si preme un pulsante posto all’estremtà della penna per rilasciare l’insulina.
Microinfusore: dispositivi costituiti da una pompa miniaturizzata e computerizzata, che attraverso un catetere sottocutaneo nell’addome, il cui punto di ingresso deve essere cambiato ogni 3 giorni, consente la somministrazione di insulina in continuo a seconda nella richiesta dell’organismo. I microinfusori sono raccomandati in caso di emoglobina glicosilata non adeguatamente compensata, nelle donne in gravidanza, nei pazienti con difficoltà di compliance per limitazioni di orario, nei pazienti pediatrici all’esordio della malattia e nei pazienti adolescenti alle prime complicanze microangiopatiche. La somministrazione di insulina com microinfusori permette di seguire un andamento più fisiologico con un risparmio di circa il 20% della dose rispetto alla somministrazione sottocutanea. L’uso del microinfusore richiede il monitoraggio della glicemia almeno 4 volte al giorno per programmare la pompa e l’uso da parte di pazienti con elevata compliance.