Il warfarin (INN: Warfarin) è un anticoagulante appartenente al gruppo dei derivati 4-idrossi-cumarinici. Possiede un carbonio chirale sulla catena laterale in posizione 3: presenta quindi due enantiomeri, di cui quello levogiro è più attivo. In soluzione dà luogo ad un equilibrio tautomerico fra tre strutture: due diasteroisomeri emichetalici e una forma intermedia aperta. La forma impiegata in terapia è quella racemica.
Il warfarin è un antagonista della vitamina k: inibisce la vitamina k1 epossido reduttasi, enzima che catalizza la riduzione della vitamina tal quale e della forma 2,3 epossidica nella forma attiva idrochinonica.
Il gene che codifica per l’enzima vitamina k-epossido reduttasi è soggetto a polimorfismi, responsabili della diversa risposta al warfarin dei singoli pazienti (Rieder et al., 2005).
L’interazione tra il warfarin e l’enzima non risulta stereoselettiva; infatti la parte della molecola responsabile delle proprietà farmacodinamiche del warfarin è rappresentato dal sistema 4-idrossi-cumarinico e non dalla catena laterale, che porta il carbonio chirale. Bloccando la conversione nella forma attiva della vitamina k, il warfarin inibisce anche la reazione accoppiata a questa, cioè la trasformazione del residuo glutammico in acido bicarbossilico dei fattori II, VII, IX e X.
L’anticoagulante inibisce anche la sintesi della proteina C e del suo cofattore, proteina S.
La vitamina k interviene nella sintesi delle forme attive dei fattori della coagulazione: II (protrombina), VII, IX, X. In questi fattori la catena peptidica termina con un residuo glutammico, convertito in acido carbossiglutammico con l’attivazione del fattore stesso. In presenza di calcio, i gruppi bicarbossilici così formati costituiscono complessi fra le proteine e i fosfolipidi presenti sulla superficie delle piastrine.
Il warfarin è efficace sia dopo somministrazione orale che endovena; l’effetto anticoagulante compare circa 24 ore dalla somministrazione ma l’effetto massimo è raggiunto dopo 2-3 giorni di terapia. La sua azione farmacologica non risulta immmediata in quanto interviene sulla sintesi dei fattori della coagulazione e non a livello di agglomerati piastrinici già formati.
È risultato efficace nel trattamento di trombosi venose profonde, di embolia polmonare, nella prevenzione di episodi tromboembolici in caso di fibrillazione atriale, infarto miocardico, stroke, attacco ischemico transitorio (TIA).
Da numerosi studi condotti per valutare l’efficacia della terapia con warfarin o acido acetilsalicilico nel ridurre il rischio di stroke in pazienti con fibrillazione atriale è emerso, in generale, che: i pazienti ad alto rischio (età avanzata, diabete, ipertensione, precedenti attacchi ischemici transienti o stroke, carente funzionalità ventricolare) ricevono maggiori benefici dalla terapia anticoagulante con warfarin; nei pazienti di età <65 anni e con nessun fattore di rischio, la possibilità di stroke in assenza di terapia profilattica con warfarin o aspirina è bassa; nei pazienti di età compresa tra 65 e 75 anni con nessun fattore di rischio, il rischio di stroke è basso sia in caso di terapia con warfarin che in caso di terapia con aspirina, per cui la scelta spetta al medico curante; tutti i pazienti di età >75 anni e tutti i pazienti di qualsiasi età con fattori di rischio traggono evidenti benefici dall’uso del warfarin (il beneficio prodotto supera di gran lunga il rischio di emorragia) (Jagasia et al., 2000).
In pazienti con fibrillazione atriale ed uno o più fattori di rischio per stroke, la terapia anticoagulante orale con warfarin si è rilevata nettamente superiore alla terapia a base di clopidrogel (75 mg/die) più acido acetilsaliciclico (75-100 mg/die) nel prevenire eventi vascolari (stroke, emboli non a carico del sistema nervoso centrale, infarto, morte) (ACTIVE Writing Group of the ACTIVE Investigators et al., 2006).
Gli antagonisti della vitamina k (warfarin, acenocumarolo ed altri derivati cumarinici) costituiscono i farmaci di scelta per i pazienti affetti da fibrillazione atriale e presentanti uno o più fattori di rischio aggiuntivi per ictus (Go, 2009).
Recentemente è stato sviluppato un dispositivo in grado di impedire la fuoriuscita dei trombi formatisi nell’auricola dell’atrio sinistro, tipicamente associati alla fibrillazione atriale.
Tale device, che presenta il vantaggio, rispetto alla terapia anticoagulante orale, di non indurre emorragie, posizionato in 463 pazienti con fibrillazione atriale si è dimostrato efficace nel prevenire gli ictus ischemici (Fountain et al., 2006); in uno studio successivo, la sua efficacia non è risultata inferiore a quella del warfarin, ma il suo posizionamento è stato associato a complicazioni (Holmes et al., 2009).
Le eparine a basso peso molecolare (“LMWH” - Low Molecular Weight Heparins) si sono dimostrate maggiormente efficaci del warfarin nella profilassi della trombosi venosa profonda dopo interventi di chirurgia ortopedica maggiore, avendo determinato in pazienti sottoposti a chirurgia dell’anca, una minor frequenza di trombosi venosa profonda di qualsiasi tipo rispetto al warfarin (14% vs 21%) (Geerts et al., 2008).
Anche nella tromboprofilassi dopo inserzione di protesi al ginocchio (artroplastica) le eparine a basso peso molecolare determinano percentuali più basse di trombosi venosa profonda prossimale (cioè a carico delle vene al di sopra del ginocchio, più spesso associata a complicanze emboliche) rispetto al warfarin (P=0.0002) (Brookenthal et al., 2001).
Dati clinici preliminari evidenziano come l’uso di warfarin in pazienti con schizofrenia sia associato a riduzione dei sintomi clinici psicotici e a remissione a lungo termine della malattia. In uno studio clinico relativo all’uso di warfarin per il trattamento della trombosi venosa profonda (TVP), 5 pazienti affetti anche da schizofrenia sono andati incontro, tutti, a remissione dei sintomi dopo il trattamento prolungato con warfarin. Questi pazienti non hanno più dovuto ricorrere a farmaci antipsicotici per un tempo variabile comprese fra 2 e 11 anni. Il meccanismo ipotizzato per spiegare gli effetti antipsicotici del warfarin si rifà agli effetti dell’anticoagulante sull’attivatore tissutale del plasminogeno, tPA, proteina chiave nel processo di fibrinolisi e probabilmente coinvolta anche nella neurogenesi dopo stress severo. La normalizzazione della funzione del tPA indotta dal warfarin potrebbe essere all’origine della remissione prolungata dei sintomi psicotici. Tutti e 5 i pazienti schizofrenici avevano 2 o più condizioni fisiologiche caratterizzate da bassa attività del tPA (come ad esempio iperinsulinemia a digiuno, iperomocistinemia, titolo medio/alto di anticorpi antifosfolipidici). Nei pazienti con schizofrenia una alterata attività del tPA può essere ricollegata a una trasmissione dopaminergica insufficiente a livello dei recettori della dopamina D1 nella corteccia prefrontale del cervello e ad una attivazione (clivaggio) alterata del precursore del fattore neurotrofico cerebrale. Sono necessari comunque ulteriori indagini cliniche approfondite per confermare il possibile ruolo del warfarin come potenziale antipsicotico (American Psychiatric Association, 2014).