Il rituximab è un anticorpo monoclonale anti CD20 approvato nel trattamento del linfoma non Hodgkin, nella leucemia linfatica cronica, nella granulomatosi con poliangite (granulomatosi di Wegener) (GPA) e nella poliangite microscopica (MPA) in pazienti adulti; in alcune forme di linfoma non Hodgkin nei pazienti pediatrici. Il rituximab è poi utilizzato in indicazioni non approvate (off label), ma sostenute da evidenze scientifiche, in patologie quali la sclerosi multipla, il lupus eritematoso sistemico e la piastrinopenia autoimmune (trombocitopenia immune, ITP).
Il rituximab è un anticorpo sintetizzato in laboratorio in parte umano e in parte murino (topo) (anticorpo ingegnerizzato chimerico umano/murino) diretto contro l’antigene transmembrana CD20, molecola proteica che si trova sulla superficie dei linfociti B normali e tumorali. I linfociti B sono le cellule immunitarie che, una volta attivate (plasmacellule), producono gli anticorpi. L’antigene CD20 è presente sia sui precursori dei linfociti B sia sui linfociti B maturi, ma viene perso quando il linfocita B si trasforma in plasmacellula, e non è presente sulle cellule staminali del midollo osseo (pertanto la distruzione dei infociti causata dal rituximab è transitoria) o su altri tessuti sani.
L’antigene CD20 viene espresso su oltre il 95% di tutti i linfomi non-Hodgkin’s B-cellulari.
Il rituximab appartiene alla classe delle immunoglobulina IgG (immunoglobulina IgG1k). Ogni anticorpo è formato da due catene pesanti e da due catene leggere, che nel caso del rituximab sono composte rispettivamente da 451 e 213 aminoacidi ciascuna, per un peso molecolare pari a 145 kD. Ogni catena proteica presenta una regione variabile e una regione costante: la regione variabile (Fab) è quella che si lega all’antigene, mentre la regione costante (Fc) interagisce con i meccanismi effettori dell’ospite volti a provocare la lisi cellulare (citotossicità complemento-dipendente o CDC e anticorpo-dipendente o ADCC). Nel rituximab la regione Fab, che si lega all’antigene CD20, è di origine murina (topo), mentre la regione Fc è umana. Questo consente di ottenere un anticorpo in cui la potenzialità immunogenica (il rischio di essere attaccato dal sistema immunitario) risulta ridotta. La presenza infatti di anticorpi antichimerici umani contro la regione Fab murina, inclusa la risposta anti idiopatica alla porzione di anticorpo che si lega all’antigene, sono risultati limitati.
In vitro il rituximab ha indotto l’apoptosi cellulare, inibito la proliferazione delle linee cellulari del linfoma e sensibilizzato cellule tumorali farmaco-resistenti all’azione citotossica di farmaci chemioterapici (Demidem et al., 1995).
Poiché il rituximab per espletare la sua attività antitumorale necessita del legame con l’antigene CD20, la maggiore diffusione di questo antigene è associata ad una maggiore attività del farmaco (il linfoma con categoria istologica A, caratterizzato da una densità di antigene di superficie inferiore rispetto ai linfomi con categoria istologica B, C, D, è associato ad una minore risposta terapeutica dei pazienti al rituximab, 12-15% vs 56-60%) (Maloney et al., 1997).
Linfoma non-Hodgkin - Monoterapia
Il linfoma non Hodgkin (LNH) è un tumore a carico del sistema linfatico. In base al grado di diffusione sono definiti 4 stadi in ordine crescente di gravità. E’ distinto inoltre, in base all’aggressività, nella forma indolente a basso grado (diffusione lenta e quadro sintomatologico non vario) e aggressiva o a grado intermedio o elevato (diffusione rapida) – il linfoma linfoblastico, il linfoma a cellule piccole non segmentate diffuse e il linfoma di Burkitt sono linfomi non Hodgkin di tipo aggressivo. Se la struttura del linfonodo colpito dalla malattia mantiene l’architettura normale, il linfoma è definito “follicolare”, differentemente si definisce “diffuso”; il linfoma follicolare rientra nella categoria dei linfomi indolenti, mentre quello diffuso nella categoria dei linfomi aggressivi.
L’impiego del rituximab nel trattamento di LNH ha permesso di ottenere fino al 100% di risposta terapeutica quando associato a chemioterapia in pazienti con linfoma indolente (tempo medio di progressione del tumore superiore a 50 mesi); fino al 50% in caso di linfoma follicolare refrattario o recidivante (tempo medio di progressione del tumore: 18 mesi); fino al 73% in caso di linfoma follicolare asintomatico, mai trattato.
In pazienti affetti da linfoma non Hodgkin a cellule B a basso grado o follicolare, in recidiva o non rispondenti a precedenti terapie, il rituximab (375 mg/m2/sett per 4 settimane) è risultato efficace nel 50% dei pazienti trattati e valutabili. In particolare, il 44% dei pazienti trattati ha evidenziato risposta parziale (diminuzione maggiore o uguale al 50% di tutte le lesioni tumorali, associata ad assenza di progressione del tumore per almeno 28 giorni); il 6% ha evidenziato risposta completa (nessuna evidenza della malattia per almeno 28 giorni) (McLaughlin et al., 1998). Il tempo mediano alla risposta è stato di 50 giorni; la mediana alla progressione della malattia (periodo di tempo fra la prima somministrazione del farmaco e la comparsa di progressione della malattia) è stata pari a 10,2 e 13 mesi rispettivamente in caso di pazienti con risposta parziale o completa. La sopravvivenza ad un anno è risultata compresa fra il 90 e il 95% (McLaughlin et al., 1998; Maloney et al., 1997).
Il tasso di risposta clinica è risultato aumentare prolungando la durata del trattamento da 4 a 8 settimane (risposta clinica: 57%) (Piro et al., 1999). L’efficacia del farmaco non è influenzata da precedenti trattamenti antitumorali quali chemioterapia, radioterapia, immunoterapia o dalla chemioresistenza.
Il ricorso ad un secondo ciclo di terapia con rituximab ha indotto risposta clinica pari al 46 % (parziale: 29%;completa: 13%) (Davis et al., 1998).
I pazienti con lesioni tumorali contenute (<5 cm) o sottoposti a trapianto autologo di midollo osseo hanno dato risposte terapeutiche elevate al trattamento con rituximab (55% e 78%, rispettivamente). In caso di malattia bulky (massa tumorale voluminosa, uguale o superiore a 10 cm) a basso grado o follicolare a cellule B, la somministrazione di rituximab (una dose alla settimana per 4 volte) ha determinato una risposta complessiva del 36% con una mediana del tempo alla progressione (TTP) di 9,6 mesi (intervallo 4,5-26,8 mesi) per i pazienti responsivi al trattamento.
Nei pazienti con linfoma non Hodgkin ricaduto o chemioresistente a basso grado o follicolare a cellule B, responsivi ad un precedente trattamento con rituximab, la risomministrazione del farmaco (4 dosi settimanali) ha indotto una risposta complessiva pari al 38% (completa: 10%; parziale: 28%) con una proiezione della mediana del tempo di progressione di 17,8 mesi (rispetto a 12,4 mesi ottenito con il primo ciclo di rituximab).
Linfoma non Hodgkin più chemioterapia
Nel trattamento del linfoma non Hodgkin a cellule B a basso grado, sia in pazienti precedentemente trattati sia mai trattati (naive), l’associazione di rituximab (375 mg/m2) allo schema antitumorale CHOP – ciclofosfamide (750 mg/m2) più adriamicina (50 mg/m2) più vincristina (1,4 mg/m2) più prednisone 100 mg/m2) – ha determinato risposta terapeutica parziale nel 40% dei pazienti e risposta completa nel 55%. La durata media della risposta clinica è stata maggiore di 40,5 mesi. Lo schema posologico per il rituximab prevedeva due infusioni prima dell’inizio della chemioterapia, due infusioni prima del terzo e quinto ciclo di chemioterapia, due infusioni dopo il sesto ciclo di chemioterapia (Czuczman et al., 1999).
L’associazione di rituximab (375 mg/m2/sett) a interferone alfa (5 milioni unità/die tre volte settimana) ha indotto risposta terapeutica nel 58% dei pazienti con linfomanon Hodgkin a basso grado o follicolare (risposta parziale: 50%;risposta completa: 8%) (Davis et al., 1998a).
Nel trattamento del linfoma non Hodgkin di grado intermedio o elevato (sottotipo D, G, H), il rituximab (375-500 mg/m2/settimana per 8 settimane) ha indotto risposta clinica nel 31% dei pazienti (Coiffier, 1998); nell’86% dei pazienti sottoposti precedentemente a trapianto autologo di cellule staminali (Tsai et al., 1998).
Per valutare il ruolo dell’anticorpo monoclonale sia nella fase di induzione sia nella fase di mantenimento, il rituximab (375 mg/m2 il primo giorno del trattamento chemioterapico) è stato somministrato in aggiunta a CHOP in pazienti con linfoma follicolare recidivato/resistente e confrontato con la sola CHOP. I pazienti che dopo 6 cicli di chemioterapia presentavano remissione (completa e parziale) sono stati sottoposti ad una seconda randomizzazione a terapia con rituximab oppure osservazione. L’aggiunta di rituximab alla terapia CHOP ha indotto remissione nel 85,2% vs 72,3% dei pazienti, con una risposta completa pari al 29,5% vs 15,6%. La sopravvivenza libera da progressione durante la prima randomizzazione è stata di 33,1 mesi vs 20,2 mesi, rispettivamente con rituximab più CHOP vs CHOP; la siopravvivenza libera da progressione dopo la seconda randomizzazione è stata pari a 51,5 mesi vs 14,9 mesi, rispettivamente con rituximab come terapia di mantenimento vs osservazione. Dopo 3 anni dalla seconda randomizzazione, la sopravvivenza totale è risultata essere pari all’85% vs 77% rispettivamente con rituximab o solo osservazione (van Oers et al., 2006).
L’associazione con CHOP è risultata più efficace della monoterapia CHOP in caso di forme neoplastiche non precedentemente trattate (risposta clinica parziale: 33% conrituximab più CHOP; completa: 63% vs 45-55%,rispettivamente con rituximab più CHOP e CHOP) (Onrust etal., 1999).
In pazienti con linfoma non Hodgkin follicolare in III-IV stadio mai trattati (naive), l’aggiunta di rituximab a chemioterapia CVP (ciclofosfamide più vincristina più prednisone) ha indotto risposta completa più elevata rispetto al solo trattamento chemioterapico CVP (40% vs 10%). Il fallimento del trattamento (esito clinico principale) è stato osservato dopo 26 mesi vs 7 mesi, rispettivamente nel gruppo trattato con rituximab più CVP e in quello in solo trattamento CVP. L’aggiunta di rituximab alla chemioterapia ha aumentato in modo significativo il tempo alla progressione della malattia o alla morte (33,6 mesi vs 14,7 mesi). La mediana di durata della risposta è stata di 37,7 vs 13,5 mesi rispettivamente nei pazienti trattati con rituximab più chemioterapia rispetto ai pazienti trattati con la sola chemioterapia. La sopravvivenza a 53 mesi (poco più di 4 anni) è risultata pari a 80,9% vs 71,1% nei due gruppi di trattamento. L’aumento di neutropenia associato a rituximab non è stato accompagnato da un incremento delle infezioni (Marcus et al., 2008). Analoghi benefici terapeutici associati all’aggiunta di rituximab al trattamento chemioterapico sono stati confermati in altri studi clinici (sopravvivenza globale a 18 mesi Rituximab/CHOP vs CHOP: 95% vs 90%; sopravvivenza globale a 5 anni: CHVP/rituximab/Interferone vs CHVP/interferone 84% vs 79%; sopravvivenza globale a 4 anni: MCP/rituximab vs MCP: 87% vs 74%) (Salles et al., 2008; Herold et al., 2007; Hiddemann et al., 2005).
Linfoma non Hodgkin – Terapia di mantenimento
Nei pazienti con linfoma follicolare, la progressione della malattia in genere si osserva 3-5 anni dopo l’inizio del trattamento. In pazienti che hanno risposto ad una terapia di induzione che prevedeva rituximab più chemioterapia, la somministrazione di rituximab come terapia di mantenimento ha determinato un miglioramento significativo, rispetto alla sola osservazione, della sopravvivenza libera da progressione (esito clinico principale; 74,9% vs 57,6% dei pazienti, HR:0,55), così come per la sopravvivenza libera da eventi, tempo al successivo trattamento anti-linfoma o trattamento chemioterapico e risposta globale. La differenza nella sopravvivenza globale, comunque, non è risultata statisticamente significativa (HR: 0,87) a 2 anni dalla randomizzazione. Il rituximab è stato somministrato ogni due mesi per un periodo massimo di 2 anni o fino a progressione della malattia. Una percentuale maggiore di pazienti nel gruppo rituximab ha evidenziato eventi avversi gravi (grado 3 e 4) (24% vs 17% dei pazienti) e un’incidenza più alta di infezioni (39% vs 24%) (Salles et al., 2011).
In caso di linfoma follicolare ricaduto/recidivato, l’aggiunta di rituximab alla chemioterapia CHOP nella fase di induzione ha migliorato la risposta globale (87% vs 74%) e la risposta completa (29% vs 16%), non quella parziale (58% vs 58%). La successiva terapia di mantenimento con rituximab (375 mg/m2 ogni 3 mesi per 2 anni o fino a progressione della malattia), somministrata ai pazienti con remissione completa o parziale, ha migliorato significativamente la sopravvivenza libera da progressione (che includeva anche il tempo fino a ricaduta o morte) (42 2 vs 14,3 mesi) rispetto alla sola osservazione. La riduzione del rischio di progressione o morte con rituximab rispetto alla sola osservazione è risultato pari al 61%; la percentuale di pazienti liberi da progressione a 12 mesi è stata del 78% vs 57% e il rischio di morte è risultato inferiore del 56% con rituximab (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2023).
Nei pazienti anziani con linfoma follicolare, il trattamento rituximab più chemioterapia CHOP aumenta la percentuale di risposta terapeutica, il tempo al fallimento terapeutico e la sopravvivenza. Nei pazienti naive, la somministrazione di rituximab (375 mg/m2) il giorno prima della chemioterapia, per 6-8 cicli di trattamento, ha determinato un prolungamento del tempo al fallimento terapeutico fino a 5 anni vs 2,1 anni nei pazienti trattati solo con la chemioterapia. La sopravvivenza libera da progressione stimata a 4 anni è stata del 62,2% nel gruppo trattato con l’anticorpo più CHOP vs 27,9% nel gruppo trattato solo con CHOP. L’aggiunta di rituximab al trattamento chemioterapico standard ha aumentato la sopravvivenza totale stimata a 4 anni dall’81% al 90%. Da un’analisi multivariata è emerso che elevati livelli plasmatici di lattato deidrogenasi, valori di emoglobina <12 g/dl, aree di coinvolgimento linfonodale >4 e solo terapia CHOP rappresentano fattori di rischio indipendente associati al tempo al fallimento del trattamento (48th Ann. Meeting Am. Soc.Hematol., 2006).
I pazienti trattati con rituximab più chemioterapia possono sviluppare neutropenia tardiva. La neutropenia ad esordio tardivo è una condizione patologica definita come conta di neutrofili ≤1x109/L, in assenza di una causa apparente, che si manifesta dopo recupero dei neutrofili in pazienti trattati con chemioterapia. In 107 pazienti con linfomi a cellule B CD20 positivi, trattati con rituximab, l’incidenza cumulativa di neutropenia tardiva è risultata pari al 24,9%; tale effetto si è manifestato dopo una media di 106 giorni dall’ultima chemioterapia ed è risultato, nella maggior parte dei pazienti, autolimitantesi (Nitta et al., 2007).
Leucemia linfatica cronica
La leucemia linfatica cronica (LLC) è un tumore del sangue, caratterizzato dalla presenza di linfociti maligni, apparentemente maturi, che sostituiscono nel tempo i linfociti normali dei linfonodi. Questo tipo di tumore, che si manifesta in genere dopo i 60 anni (tre quarti dei pazienti), ha una progressione molto lenta per cui i pazienti non richiedono terapie per diversi anni.
Il regime chemioimmunoterapico formato da rituximab più fludarabina più ciclofosfamide ha rappresentato il “gold standard” nel trattamento della leucemia linfatica cronica prima dell’introduzione degli inibitori della tirosin-chinasi di Bruton (ibrutinib, acalabrutinib) e di Bcl-2 (venetoclax), che negli studi clinici, in pazienti mai trattati, hanno dato esiti molto positivi. Nei pazienti in buona salute, con meno di 65 ani, la combinazione rituximab/fludarabina/ciclofosfamide è ancora la terapia di riferimento, soprattutto in presenza di mutazioni del gene IGVH (Hallek, 2019).
L’aggiunta di rituximab alla chemioterapia con fludarabina più ciclofosfamide in pazienti con leucemia linfatica cronica mai trattata ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale. In uno studio condotto con pazienti di età compresa tra 30 e 81 anni, la somministrazione di rituximab (375 mg/m2 il giorno 0 del primo ciclo e 500 mg/m2 il giorno 1 dal secondo al sesto ciclo di chemioterapia) in associazione a fludarabina/ciclofosfamide è stata associata ad una percentuale maggiore di pazienti liberi da progressione a 3 anni (35% vs 45%, HR: 0,56) e ad una percentuale maggiore di pazienti in vita (87% vs 81%, p =0,01). L’incidenza di eventi avversi gravi (grado 3 e 4) è risultata maggiore nel gruppo trattato con rituximab (34% vs 21%), mentre l’incidenza di morte correlata al trattamento è risultata pari al 2% vs 3% con rituximab/chemioterapia vs chemioterapia (Hallek et al., 2010).
In uno studio di fase 3, l’associazione rituximab-ibrutinib è stata confrontata con lo standard terapeutico, ovvero rituximab più fludarabina più ciclofosfamide, in pazienti con leucemia linfatica cronica mai trattata (terapia di prima linea) per valutare la sopravvivenza libera da progressione (esito clinico primario) e la sopravvivenza globale (esito clinico secondario). L’analisi ad interim pianificata nel protocollo del trial ha evidenziato esiti più favorevoli nel gruppo di pazienti trattati con rituximab più ibrutinib: la sopravvivenza libera da progressone è risultata pari a 89,4% vs 72,9% a 3 anni (hazard ratio, HR, per progressione o morte, 0,35; 95% IC, 0,22-0,56, p <0,001); la sopravvivenza globale è risultata pari a 98,8% vs 91,5% a 3 anni (HR per morte, 0,17; 95% IC 0,05-0,54, p <0,001). In un sottogruppo di pazienti che non presentavano mutazioni del gene IGVH, a carico cioè della regione variabile della catena pesante delle immunoglobuline, la sopravvivenza libera da progressione a tre anni è risultata pari a 90,7% nel gruppo trattato con rituximab e ibrutinib e pari al 62,5% nel gruppo trattato con la terapia standard (immunochemioterapia) (HR per progressione o morte, 0,44; 95% IC 0,14-1,36). Nello studio l’incidenza di eventi avversi severi (di grado ≥3) è risultato simile nei due gruppi di trattamento (80,1% vs 79,7% rispettivamente con rituximab più ibrutinib e con immunochemioterapia). L’incidenza di infezioni è risultata minore nei pazienti trattati con rituximab più ibrutinib (10,5% vs 20,3%, p <0,001) (Shanafelt et al., 2019).
In pazienti con leucemia linfatica cronica recidivata/refrattaria, l’aggiunta di rituximab alla chemioterapia con fludarabina/ciclofosfamide ha dato esiti simili a quelli osservati nel trattamento di prima linea. Benefici clinici sono stati osservati con l’aggiunta di rituximab anche ad altri schemi chemioterapici, inclusi CHOP, FCM, PC, PCM, bendamustina e cladribina. Con la disponibilità degli inibitori della tirosin-chinasi di Bruton (ibrutinib, acalabrutinib) e di Bcl-2 (venetoclax), sono stati messi a punto regimi terapeutici alternativi, raccomandati nei pazienti in cui la remissione della malattia presenta una durata inferiore ai 3 anni (rituximab/idelalisib, rituximab/venetoclax) (Hallek, 2019).
Linfoma non Hodgkin nella popolazione pediatrica
Il rituximab è utilizzato anche nella popolazione pediatrica per trattare alcuni tipi di linfoma non Hodgkin: linfoma CD20 positivo, diffuso a grandi cellule B (DLBCL); linfoma di Burkitt (BL)/leucemia di Burkitt (leucemia acuta a cellule B mature, BAL); linfoma simil-Burkitt (BLL).
Nello studio registrativo i pazienti sono stati randomizzati in due gruppi, uno, età mediana 7 anni, trattato con chemioterapia LBM e l’altro, età mediana 8 anni, trattato con lo stesso regime chemioterapico più rituximab. La chemioterapia LBM (Lymphome Malin B) prevede la somministrazione dei seguenti farmaci: glucocorticoidi, vincristina, ciclofosfamide, metotrexato ad alte dosi, citarabina, doxorubicina, etoposide. La maggior parte dei pazienti arruolati erano in stadio BL III o BAL senza coinvolgimento del sistema nervoso centrale (SNC); meno della metà presentava coinvolgimento del midollo osseo e meno di un quarto dei pazienti presentava coinvolgimento del SNC. Lo studio era stato disegnato per valutare la sopravvivenza libera da eventi (EFS) dove gli eventi erano rappresentati da proressione della malattia, recidiva, secondo tumore maligno, morte per qualsiasi causa, malattia minima residua nonostante due cicli di chemioterapia con citarabina più etoposide (regime CYVE). Lo studio prevedeva anche due esiti clinici secondari: la sopravvivenza globale e la remissione completa. Il protocollo dello studio includeva un’analisi ad interim dopo un follow up mediano di un anno. L’analisi ad interim ha evidenziato un miglioramento significativo della sopravvivenza libera da eventi nel gruppo trattato con rituximab (94,2% vs 81,5% dei pazienti, rispettivamenti trattati con o senza rituximab) in seguito al quale anche i pazienti non trattati con rituximab sono passati al trattamento con questo farmaco (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2023).
Artrite reumatoide
L’artrite reumatoide è una patologia autoimmunitaria del tessuto articolare, che colpisce in particolare le articolazioni di mani e piedi, caratterizzata da infiammazione cronica e distruzione irreversibile della struttura articolare. La diagnosi si basa sulla ricerca nel sangue del fattore reumatoide o degli anticorpi anti-peptide ciclico citrullinato (anti-CCP) e sulle radiografie delle articolazioni colpite. Il trattamento farmacologico prevede l’impiego di farmaci antireumatici modificanti la malattia (DMARD, disease-modifying antirheumatic drug; tra questi il metotrexato da solo o in associazione è raccomandato come farmaco di riferimento nella maggior parte delle linee guida), farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS), e farmaci immunosoppressori (glucocorticoidi, farmaci biologici). Inizialmente considerata una malattia mediata dalle cellule T, ha visto successivamente allargare il proprio orizzonte patogenetico anche alle cellule B, da cui l’impiego del rituximab come trattamento terapeutico attivo (Edwards, Cambridge, 2001). Il rituximab è raccomandato nei pazienti che non rispondono in modo soddisfacente ai farmaci DMARD convenzionali (SNLG-Regioni – Reumatologia, 2018).
Studio clinico DANCER
Nello studio di fase IIb DANCER (Dose-Ranging Assessmente International Clinical Evaluation of Rituximab inRA), il rituximab, con o senza glucocorticoidi, è stato somministrato in pazienti con artrite reumatoride attiva nonostante la terapia con metotrexato (farmaco DMARD). Lo studio valutava efficacia e sicurezza dell’anticorpo monoclonale in pazienti non responsivi ad almeno un farmaco DMARD e scarsamente responsivi al metotrexato. I pazienti arruolati, di età compresa fra 18 e 80 anni, sono stati randomizzati a ricevere placebo oppure rituximab 500 mg oppure 1000 mg in infusione il giorno 1 e il giorno 15; ciascuno di questi gruppi è stato ulteriormente randomizzato a ricevere placebo oppure metilprednisolone 100 mg/die ev per 2 giorni oppure metilprednisolone 100 mg/die ev per 2 giorni seguito da prednisone 60 mg/die os dal giorno 2 al giorno 7, seguito da prednisone 30 mg/die os dal giorno 8 al giorno 14. In tutto, i gruppi di trattamento ottenuti sono stati 9. Tutti i pazienti hanno continuato a ricevere metotrexato (dose media pari a 15,5 mg/settimana) (Emery et al., 2006).
Al termine dello studio (24 settimane) la percentuale di pazienti che ha raggiunto l’indice ACR20 (miglioramento dei sintomi pari al 20%) è stata del 28% vs 55% vs 54% rispettivamente con placebo, rituximab 500 mg. rituximab 1000 mg; la percentuale di pazienti che ha raggiunto l’indice ACR50 è stata pari a 13% vs 33% vs 34%; la percentuale di pazienti che ha raggiunto l’indice ACR70 è stata pari a 5% vs 13% vs 20%. L’associazione con glucocorticoidi non è risultata contribuire all’efficacia terapeutica del rituximab, ma ha ridotto l’incidenza delle reazioni correlate all’infusione dell’anticorpo. Le reazioni all’infusione hanno rappresentato gli effetti collaterali più frequenti: (prima infusione) 18% con placebo vs 31% con rituximab 500 mg vs 38% con rituximab 1000 mg; (seconda infusione) 11% con placebo vs 7% con rituximab 500 mg vs 10% con rituximab 1000 mg. Infezioni del tratto respiratorio superiore hanno interessato il 28% dei pazienti trattati con placebo e il 35% di quelli in terapia con rituximab (le infezioni gravi sono state rispettivamente 2 nel gruppo placebo e 4 nel gruppo rituximab). Non sono state segnalate infezioni opportunistiche o riattivazioni di tubercolosi. Effetti collaterali gravi si sono verificati nel 3% dei pazienti trattati con placebo e nel 7% di quelli trattati con il farmaco (Emery et al., 2006).
Studio clinico REFLEX
Nello studio REFLEX (Efficacy and Safety of Rituximabin Active RA patiens who Experienced an InadequateResponse to one or more Anti-TNFa Therapies) la somministrazione di un solo ciclo di rituximab (2 infusioni a distanza di 15 giorni una dall’alta) con un dosaggio stabile di metotrexato è risultata più efficace nel migliorare i sintomi rispetto al solo metotrexato in pazienti con risposta non adeguata a uno o più anti-TNF alfa e con malattia attiva nonostante metotrexato e un inibitore del TNF alfa. I pazienti trattati con una dose stabile di metotrexato (10-25 mg/settimana) da almeno 4 settimane sono stati randomizzati a ricevere placebo oppure rituximab (1000 mg) in infusione ev i giorno 1 e il giorno 15. Tutti i pazienti sono stati trattati con metilprednisolone (100 mg ev) prima di ciascuna infusione e con un breve trattamento orale di glucocorticoidi fra le due infusioni di anticorpo (Cohen et al., 2006).
L’analisi delle risposte è stata effettuata ogni 4 settimane e la quota di pazienti in fallimento terapeutico (miglioramento dei sintomi inferiore al 20%) è stata trattata con una terapia di “salvataggio” dalla 16a alla 24a settimana. Al termine dello studio (24 settimane), l’indice ACR20 (endpoint primario), ACR50 e ACR70 (endpoint secondari) sono risultati rispettivamente pari a 51%, 27% e 12% con rituximab vs 18%, 5% e 1% con placebo. In tutti gruppi trattati con rituximab le risposte terapeutiche (ACR20, ACR50 e ACR70) sono risultate stastisticamente superiori al gruppo di confronto (p <0,0001) e i pazienti trattati hanno manifestato miglioramenti significativi in termini di qualità di vita (test di valutazione: FACIT-Fatigue per l’astenia, HAQ-DI per la disabilità, SF-36 score relativo a salute fisica e mentale). Il 12% e 40% dei pazienti, rispettivamente del gruppo rituximab e placebo, hanno interrotto la terapia per mancanza di efficacia; interruzioni per eventi avversi, hanno interessato il 3% e meno dell’1% dei pazienti rispettivamente trattati con il farmaco o il placebo. Anche in questo studio, come nel DANCER, gli eventi avversi più comuni sono state le reazioni all’infusione (meno dell’1% di tali reazioni sono risultate gravi). Le infezioni gravi sono state osservate nel 2% nei pazienti che hanno ricevuto l’anticorpo e nell’1% di quelli in terapia con il placebo. Eventi avversi gravi hanno coinvolto il 7% e il 10% dei pazienti, rispettivamente trattati con rituximab più metotrexato e metotrexato in monoterapia (Cohen et al., 2006).
Nello studio REFLEX, l’analisi radiologica delle articolazioni colpite da artrite reumatoide ha evidenziato una progressione significativamente minore del danno articolare nei pazienti trattati con rituximab e metotrexato (56esima settimana) rispetto ai pazienti trattati con solo metotrexato. Di questi ultimi, l’81% aveva ricevuto rituximab come terapia di salvataggio (settimane 16-24). Inoltre la percentuale di pazienti con nessuna progressione erosiva oltre la 56a settimana è risultata maggiore con l’anticorpo (61% vs 52%).
Il ricorso a cicli successivi di rituximab per il trattamento dell’artrite reumatoide non ha modificato l’intensità della risposta terapeutica al farmaco.
La presenza di anticorpi antichimerici umani (HACA) nei pazienti trattati con rituximab non è stata associata ad un peggioramento clinico o ad un incremento delle reazioni all’infusione durante le infusioni successive del farmaco.
E’ stata riportata la segnalazione di un paziente, positivo agli HACA, in cui dopo la somministrazione di ulteriori cicli di trattamento con rituximab non è stata osservata deplezione delle cellule B.
Anche il cambiamento dello stato degli anticorpi antinucleo, autoanticorpi prodotti dal sistema immunitario, da negativo a positivo e viceversa, non è stato correlato all’insorgenza di nuove patologie autoimmuni.
La comparsa di iperuricemia grave (grado 3/4), soprattutto dopo l’infusione di rituximab (giorno 1 e giorno 15) non ha avuto rilevanza clinica e non è stata correlata a malattia renale.
Nei pazienti con artrite reumatoide, il trattamento con rituximab non ha provocato variazioni della concentrazione plasmatica di immunoglobuline, di linfociti e cellule della serie bianche ad eccezione di un breve periodo (1 mese) al termine del trattamento farmacologico. Anche i titoli anticorpali IgG per parotite, rosolia, varicella, tossoide del tetano, streptococco e pneumococco si sono mantenuti stabili nelle 24 settimane successive all’esposizione di rituximab.
Granulomatosi con poliangite (GPA) e poliangite microscopica (MPA) – Pazienti adulti
La granulomatosi con poliangite è un’infiammazione dei piccoli vasi (vasculite), quali capillari, venule e arteriole, associata agli anticorpi anti-citoplasma dei neutrofili (ANCA), che provoca necrosi e formazione di granulomi. I distretti più colpiti sono il tratto respiratorio e i reni, ma la vasculite può interessare qualsiasi organo. Malattia simile è la poliangite microscopica, che si differenzia dalla GPA perché il coinvolgemnto delle vie aeree superiori è assente o minimo e non sono presenti lesioni granulomatose con distruzione del tessuto. In entrambe le malattie i farmaci di riferimento comprendono rituximab, glucocorticoidi, ciclofosfamide; per la granulomatosi con poliangite anche metotrexato, azatioprina, micofenolato mofetile.
Nello studio clinico registrativo (di non inferiorità, multicentirco, randomizzato in doppio cieco), il rituximab è stato confrontato con ciclofosfamide più glucocorticoidi, che ha rappresentato la terapia di riferimento per le vasculiti associate agli anticorpi ANCA per più di 40 anni. I pazienti arruolati, affetti da granulomatosi con poliangite o poliangite microscopica, sono stati trattati con rituximab 375 mg/m2 una volta alla settimana per 4 settimane oppure con ciclofosfamide 2 mg/kg/die per 3-6 mesi. I pazienti trattati con ciclofosfamide hanno ricevuto azatioprina come terapia di mantenimento durante il follow up. I pazienti di entrambi i gruppi sono stati trattati con metilprednisolone (1 g per endovena, in bolo) il giorno 1 e 3, quindi prednisone per via orale (1 mg/kg/die, dose massima: 80 mg/die) da ridurre progressivamente entro 6 mesi dall’inizio del trattamento. L’esito clinico principale dello studio era la remissione completa a 6 mesi. Il margine di non inferiorità stabilito per la differenza tra le due terapie era pari al 20%. Al termine dello studio il 64% dei pazienti trattati con rituximab aveva raggiunto l’esito clinico principale contro il 53% del gruppo di confronto, soddisfando il criterio di non inferiorità (p <0,001). Inoltre il rituximab è risultato più efficace nell’indurre remissione della malattia nei pazienti recidivanti (67% vs 42%) (p =0,01). L’efficacia dei due trattamenti è risultata sovrapponibile nei pazienti con malattia renale maggiore o emorragia alveolare. Anche dal punto di vista della tollerabilità (incidenza di eventi avversi) rituximab e ciclofosfamide sono risultati sovrapponibili (Stone et al., 2010).
Il rituximab ha dato esito positivo anche come terapia di mantenimento. In pazienti adulti con granulomatosi con poliangite, poliangite microscopica o vasculite ANCA-associata in remissione completa dopo trattamento con ciclofosfamide-glucocorticoidi, il rituximab è stato confrontato con azatioprina. L’esito clinico principale dello studio era l’incidenza di ricomparsa di malattia grave (recidiva) dopo 28 mesi. La differenza tra i due trattamenti è risultata statisticamente significativa (p =0,002), pari al 5% di recidive con rituximab e al 29% con azatioprina (hazardio ratio 6,61; 95% IC 1,56-27,96). Inoltre considerando l’andamento nel tempo del tasso di incidenza cumulativa, i pazienti trattati con rituximab hanno evidenziato un tempo più lungo alla prima ricaduta grave. L’incidenza di eventi avversi gravi è risultata simile nei due gruppi di pazienti, inclusi infezione grave e mortalità (Guillevian et al., 2014).
Personalizzare il regime di somministrazione di rituximab, rispetto allo schema a somministrazione fissa, non ha modificato il rischio di recidiva a 28 mesi (17,3% vs 9,9% rispettivamente con lo schema personalizzato o fisso; p =0,22). Nello studio clinico di riferimento lo schema personalizzato prevedeva una prima infusione di rituximab alla randomizzazione e successivamente solo con la ricomparsa dei linfociti B (CD19) o degli ANCA o in caso di un aumento del titolo degli ANCA su base trimestrale (il regime fisso prevedeva invece la somministrazione di rituximab alla randomizzazione, dopo 2 settimane, quindi a 6, 12 e 18 mesi dalla prima iniezione) (Charles et al., 2018).
Nei pazienti con vasculite ANCA-associata in remissione completa dopo un regime di induzione “standard”, la somministrazione prolungata di rituximab – ogni 6 mesi per un periodo di 18 mesi - è risultata efficace nel ridurre il rischio di recidiva. Il rituximab è risultato associato ad una stima della sopravvivenza libera da recidiva al mese 28 del 96% contro una stima del 74% nel gruppo di controllo (placebo), con una differenza assoluta del 22% (IC da 9% a 36%) e un rapporto di rischio (hazard ratio) pari a 7,5 (IC da 1,67 a 33,7; p =0,008) (Charles et al., 2020).
Granulomatosi con poliangite (GPA) e poliangite microscopica (MPA) – Pazienti pediatrici
Il rituximab ha mostrato efficacia terapeutica e buona tollerabilità anche nel trattamento della granulomatosi con polingite e della poliangite microscopica nei pazienti pediatrici. Somministrato alla dose di 375 mg/m2 a pazienti di età compresa tra 6 e 17 anni una volta alla settimana per 4 settimane in aggiunta a glucocorticoidi durante la fase iniziale di induzione/remissione di 6 mesi, il rituximab è stato utilizzato anche nel periodo di follow up (18-54 mesi) con un numero di infusioni comprese tra 4 e 28. Nello studio non controllato, a braccio singolo, in aperto e multicentrico, il tasso di remissione, valutato tramite il Pediatric Vasculitis Activity Score, è stato osservato, rispettivamente, nel 56%, 92% e 100% dei pazienti a 6, 12 e 18 mesi. Tutti i pazienti hanno manifestato almento un evento avverso, la maggior parte reazioni all’infusione di grado lieve-moderato. Nessuno dei pazienti è deceduto (Brogan et al., 2022).
Pemfigo volgare
Il pemfigo vulgaris è una grave malattia autoimmune causata dalla presenza di anticorpi diretti verso le desmoglenina 1 e 3. Queste proteine sono coinvolte nelle strutture (desmosomi) che legano le cellule dell’epidermide le una alle altre, in modo da formare uno strato continuo. Gli anticorpi che attaccano le desmoglenine provocano lo scollamento delle cellule dell’epidermide con formazione di vere e proprie bolle che possono, nei casi più gravi, ricoprire ampie zone del corpo. Nella fase iniziale della malattia le lesioni interessano le mucose, soprattutto quelle della bocca, ma possono essere coinvolte anche congiuntiva, esofago, labbra, vagina, cervice, pene, uretra, ano. La terapia del pemfigo volgare si basa sui farmaci immunosoppressivi (alte dosi di glucocorticoidi, farmaci immunosoppressivi quali l’azatioprina e il micofenolato, immunoglobuline endovena).
Il rituximab è stato approvato come terapia di prima linea per il pemfigo volgare, in associazione a glucocorticoidi a basso dosaggio, nel 2018 negli USA e nel 2019 in Europa.
In pazienti con pemfigo vulgare refrattario (11 pazienti), l’associazione di rituximab con immunoglubuline per endovena ha determinato remissione clinica prolungata (22-37 mesi), con buona tollerabilità (nessun effetto collaterale riportato né segnalazione di infezioni). Lo schema terapeutico utilizzato nello studio clinico prevedeva una fase di induzione di due cicli di rituximab - ciascun ciclo prevedeva rituximab (375 mg/m2) una volta a settimana per 3 settimane più immunoglobuline (2 g/kg) la quarta settimana – a cui seguiva un’iniezione mensile di rituximab e immunoglubuline ev per 4 mesi (Razzaque Ahmed et al., 2006). In uno studio successivo, il rituximab è risultato efficace nella fase di induzione anche somministrato come singolo ciclo in pazienti non responsivi alla terapia corticosteroide o con controindicazione verso questi farmaci. A tre mesi dalla fine della terapia con rituximab, l’86% dei pazienti era in remissione completa (18/21) e dopo un follow up mediano di 34 mesi, la stessa percentuale di pazienti risultava libera da malattia, di cui 8 pazienti non in terapia corticosteroidea. La dose media di prednisone era comunque diminuita sia nei pazienti con malattia refrattaria ai glucocorticoidi sia in quelli con malattia glucocorticoide-dipendente. Nello studio, un paziente ha sviluppato pielonefrite dopo un anno dal trattamento con rituximab, mentre un altro è deceduto per setticemia dopo 18 mesi. Sebbene il numero di linfociti B circolanti fosse ridotto, questi pazienti presentavano livelli di IgG nella norma (Joly et al., 2007).
La somministrazione di rituximab a basso dosaggio (2 iniezioni da 500 mg ciascuna a distanza di 2 settimane) è stata associata a remissione della malattia (remissione completa 8/15 pazienti; remissione parziale 7/15 pazienti), con un tasso di ricaduta del 40% dopo una media di poco meno di 2 anni (97 settimane) (Horváth et al., 2012). In uno studio di fase II un po più ampio (40 pazienti), il trattamento con 4 iniezioni settimanali di rituximab (375 mg/m2), in associazione a terapia glucocorticoide, ha confermato l’efficacia dell’anticorpo chimerico, evidenziando però un profilo di tollerabilità da valutare (ascesso polmonare, sepsi, polmonite, trombosi del seno cavernoso, ascessi cutanei, trombosi venosa profonda, artralgia generalizzata, sindrome di Stevens-Johnson) (Balighi et al., 2013).
Nello studio RITUX 3 - studio randomizzato, prospettico, multicentrico, a gruppi paralleli, in aperto – il rituximab è stato confrontato con la terapia glucorticoide come trattamento di prima linea per il pemfigo volgare. I pazienti valutati (90 pazienti; età: 18-80 anni) presentavano diagnosi recente di malattia e non avevano ricevuto nessun tipo di trattamento. I due regimi a confronto consistevano in prednisone orale (1,0-1,5 mg/kg/die) da ridurre gradualmente nell’arco di 12-18 mesi oppure in rituximab (1 g il giorno 0 e 14 e 0,5 g a 12 e 18 mesi) combinato con un regime di prednisone a breve termine (0,5-1,0 mg/kg/die da ridurre in 3-6 mesi). Il follow up dello studio era di 3 anni (visita settimanale per il primo mese, visita mensile fino al mese 24, più una visita aggiuntiva al mese 36). L’esito clinico principale era rappresentato dalla percentuale di pazienti che raggiungevano la remissione completa al mese 24 senza terapia cortisonica per almeno due mesi. Al 24esimo mese, la percentuale di pazienti che aveva centrato l’esito clinico principale era pari a 89% (41/46) nel gruppo rituximab e al 34% (15/44) nel gruppo prednisone in monoterapia (p <0,0001). La dfferenza osservata tra i due gruppi corrisponde ad un rischio relativo di successo pari a 2,61, ovvero ad un valore di NNT (numero di pazienti da trattare per avere un esito positivo rispetto al gruppo di confronto) di 1,82. Dal punto di vista della tollerabilità l’incidenza di eventi avversi gravi (grado 3 e 4) è risultata maggiore con prednisone in monoterapia (53 eventi in 29 pazienti vs 27 eventi in 16 pazienti); nessun paziente è deceduto. In entrambi i gruppi di trattamento gli eventi gravi più frequenti sono stati diabete e disturbi endocrini (21% vs 22% rispettivamente con prednisone e rituximab/prednisone), miopatia (19% vs 11%) e problemi ossei (9% vs 19%) (Joly et al., 2017).
Un’analisi post hoc condotta successivamente sullo studio RITUX 3 ha messo in evidenza come l’uso di rituximab riduca considerevolmente il ricorso ai glucocorticoidi (dose mediana totale cumulativa di prednisone: 5800 mg vs 20520 mg rispettivamente con rituximab/prednisone e prednisone da solo) con conseguente minor incidenza di effetti collaterali (percentuale di pazienti che ha interrotto il trattamento per eventi avversi: 8/36 pazienti con prednisone da solo vs 1 paziente con rituximab/prednisone per gravidanza; percentuale di pazienti con eventi avversi di grado 3-4: 67% (24/36) con prednisone da solo vs 34% (13/38) con rituximab/prednisone) (Chen et al., 2020). In un’altra analisi post hoc dello studio RITUX 3, la gravità iniziale di malattia (valutata con il punteggio del Pemphigus Disease Area Index o PDAI) e le variazioni degli anticorpi verso la desmogleina 1 o la desmogleina 3 che si verificano durante il primo ciclo di trattamento con rituximab, sono risultate indicative del rischio di recidiva e quindi della necessità o meno di proseguire il rituximab come terapia di mantenimento (Mignard et al., 2020).
Il rituximab è stato valutato anche come possibile terapia intralesionale in caso di lesioni refrattarie al trattamento standard (prednisolone/azatioprina), mostrando un’efficacia sovrapponibile al triamcinolone intralesionale (Iraji et al., 2019).
Il rituximab è stato confrontato anche con l’immunosoppressore micofenolato mofetil. Nello studio clinico di riferimento i pazienti,con pemfigo volgare di grado moderato-severo, sono stati randomizzati a ricevere rituximab (1 g in infusione ev. il giorno 1, 15, 168 e 182) oppure micofenolato mofetil orale (2 g/die per 52 settimane) in aggiunta, in entrambi i casi, a terapia cortisonica orale a decrescere secondo lo stesso schema. L’esito clinico principale era il tasso di pazienti in remissione completa alla 52esima settimana, definita con punteggio PDAI pari a 0 senza l’uso di glucocorticoidi per almeno 16 settimane consecutive nel periodo di trattamento. Gli esiti clinici secondari comprendevano dose cumulativa di glucocorticoidi, il numero di riacutizzazioni della malattia e la variazione del punteggio DLQI (Dermatology Life Quality Index). L’esito clinico principale è stato valutato sui pazienti mITT (“modified intention-to-treat) ed è stato raggiunto dal 40% dei pazienti nel gruppo rituximab (25 pazienti su 62) e dal 10% (6/63) nel gruppo micofenolato mofetil (p <0,001). La dose cumulativa di glucocorticoidi è risultata pari a 3545 mg con rituximab e 5140 mg con micofenolato mofetil (p <0,001) e le riacutizzazioni sono state rispettivamente 6 contro 44 (p <0,001). Analogamente la variazione media del’indice DLQI (p =0,001). L’incidenza di eventi avversi gravi è risultata pari al 22% con rituximab e al 15% con il farmaco di confronto. Lo studio ha evidenziato la superiorità dell’anticorpo monoclonale chimerico nell’indurre remissione completa ad un anno e nel richiede una dose inferiore di glucocorticoidi, a fronte però di una minore tollerabilità (Werth et al., 2021).
Sclerosi multipla (indicazione off label)
Il rituximab non è approvato per il trattamento della sclerosi multipla, ma diversi studi clinici ne hanno evidenziato efficacia e sicurezza (Zecca et al., 2020). In particolare, il rituximab ha dimostrato un’efficacia elevata nella sclerosi multipla recidivante e moderata della forma progressiva (Brancati et al., 2021). La sclerosi multipla è una malattia infiammatoria del sistema nervoso centrale caratterizzata dalla distruzione da parte del sistema immunitario della guaina mielinica che avvolge le fibre nervose nel cervello e nel midollo spinale. L’uso del rituximab è legato alla presenza di cellule B e plasmacellule nelle lesioni croniche e attive della malattia e di anticorpi (immunoglubuline) nel liquido cerebrospinale. Alcuni dati suggeriscono, oltre ad un effetto diretto di riduzione dei linfociti B, anche un effetto indiretto sui linfociti T da parte del rituximab. Sembra infatti che la diminuzione delle cellule B si accompagni ad una riduzione della concentrazione di alcune citochine con attività regolatoria sui linfociti T (Piccio et al., 2010).
Nello studio di fase II HERMES, in doppio cieco, della durata di 48 settimane, il rituximab somministrato a pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) ha evidenziato un ruolo positivo nel ridurre le lesioni cerebrali e le recidive di malattia (Hauser et al-. 2008). La somministrazione dell’anticorpo (2 iniezioni da 1 g ciascuna a distanza di 15 giorni) è risultata più efficace del placebo: dopo 24 settimane, il numero totale delle lesioni si è ridotto nel 21% dei pazienti in terapia con rituximab (in media 0,5 lesioni/paziente vs 5,5 lesioni/paziente rispettivamente nel gruppo rituximab e placebo). Questi risultati si sono mantenuti fino a 48 settimane (p <0,001). La percentuale di pazienti che ha manifestato recidive è stato del 14,5% vs 34,3%,rispettivamente con il trattamento attivo e il placebo (p =0,02) a 24 settimane; del 20,3% vs 40,0% (p =0,04) a 48 settimane. Gli eventi avversi sono risultati sovrapponibili nei due gruppi di trattamento. Il 97,1% dei pazienti, in entrambi i gruppi, ha sperimentato almeno un effetto collaterale; l’incidenza di eventi avversi gravi è stata del 10,1% vs 14,3% rispettivamente con rituximab e placebo. L’incidenza di effetti correlati all’infusione è stata pari al 78,3% vs 40%, rispettivamente con rituximab e placebo alla prima infusione, sovrapponibile alla seconda infusione. Le reazioni all’infusione sono state di grado lieve-moderato nella maggior parte dei pazienti (95%). L’incidenza di infezione è stata sovrapponibile nei due gruppi di trattamento (65,2% vs 62,9% dei pazienti).
In uno studio retrospettivo di real world evidence che ha coinvolto più di 800 pazienti con diverse forme di sclerosi multipla (recidivante remittente, secondariamente progressiva e primariamente progressiva), la somministrazione di rituximab (500 mg oppure 1000 mg endovena ogni 6-12 mesi) è stata associata ad una riduzione dell’attività di malattia (evidenziata tramite risonanza magnetica) e della progressione della disabilità nei pazienti con malattia progressiva (Salzer et al., 2016).
Nello studio in aperto di fase III RIFUND-MS, il rituximab somministrato a pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente (SMRR) è stato associato ad un minor numero di recidive nel periodo di osservazione di 2 anni rispetto al trattamento con dimetilfumarato (3% vs 16%; rapporto di rischio RR 0,19, p =0,0060). Inoltre, una percentuale maggiore di pazienti trattati con l’anticorpo monoclonale chimerico non presentava lesioni nuove alla risonanza magnetica nello stesso periodo di osservazione (79% vs 63%, p =0,019) (Svenningsson et al., 2022).
Dopo lo studio HERMES, la ricerca di anticorpi anti CD20 si è spostata dal rituximb verso anticorpi interamente umani ed ha portato all’approvazione nel 2017 di ocrelizumab per il trattamento della sclerosi multipla nella forma recidivante e in quella primariamente progressiva, e all’approvazione in Europa nel 2021 di ofatumumab per la sclerosi multipla recidivante.
Lupus eritematoso sistemico (LES) (indicazione off Label)
Il lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia reumatica cronica autoimmune che colpisce soprattutto le donne: nella fascia di età 15-40 anni il rapporto donne:uomini è pari a 6-10:1. Poiché il LES si presenta con sintomi non specifici, spesso la diagnosi è tardiva e avviene quando i danni dovuti alla malattia sono già irreversibili. Tra gli organi più colpiti - pelle, articolazioni, rene, sangue – il rene è quello che subisce le conseguenze maggiori con l’aggravarsi della malattia: la nefrite lupica interessa da un quarto alla metà circa dei pazienti con LES.
Il razionale della terapia di deplezione delle cellule B in pazienti affetti da LES si basa sull’osservazione che tale patologia autoimmune spesso è associata a cellule B iperattive. Diversi studi clinici hanno evidenziato l’efficacia e la sicurezza del rituximab nel trattare il LES, ma la risposta al farmaco presenta un’ampia variabilità tra i pazienti, le cui cause non sono state ancora comprese chiaramente (Sutton et al., 2015).
Uno studio di fase I/II multicentrico, in aperto, ha valutato tollerabilità e sicurezza del rituximab nel trattamento del LES refrattario. La somministrazione del farmaco (500 mg ogni settimana per 4 settimane oppure 2 dosi da 1000 mg a settimane alterne) ha determinato la riduzione rapida dei linfociti B in tutti i pazienti, che si è mantenuta nei 6 mesi successivi alla terapia. Nessun paziente (15) ha manifestato eventi avversi significativi; 4 pazienti hanno sviluppato anticorpi antichimerici senza effetti sull’efficacia del rituximab (Tanaka et al., 2007).
In uno studio di fase II/III (studio clinico EXPLORER) per valutare efficacia e sicurezza, il rituximab (1 g il giorno 1, 15, 168 e 182) è stato confrontato con placebo. I pazienti (257, analisi Intention-To-Treat) mostravano attività di malattia (punteggio ≥1 del British Isles Lupus Assessment Group BILAG) A e ≥2 per BILAG B) nonostante la terapia immunosoppressiva (azatioprina, micofenolato mofetil o metotrexato). Tutti i pazienti sono stati trattati anche con prednisone, gradualmente a decrescere. Al termine dello studio, non sono emerse differenze tra i due gruppi di trattamento né per efficacia né in termini di sicurezza (Merrill et al., 2010). Una rianalisi dei dati non ha evidenziato variazioni nel numero di riacutizzazioni moderate-gravi o nel ritardare la loro comparsa nei pazienti che, nei due gruppi, avevano ottenuto risposta iniziale bassa all’attività di malattia (BILAG C o migliore in tutti gli organi). Considerando però le sole riacutizzazioni gravi (BILAG A), il rituximab è risultato ridurre il rischio di una successiva riacutizzazione dello stesso grado (hazard ratio: 0,61, p =0,052) e abbassare i tassi di riacutizzazione A annualizzati medi (p =0,038). Il 49,7% dei pazienti trattati con rituximab ha raggiunto una bassa attività di malattia senza successive riacutizzazioni gravi (BILAG A) rispetto al 35,2% dei pazienti nel gruppo placebo (p =0,027) (Merril et al., 2011).
La somministrazione di rituximab in aggiunta alla terapia cortisonica riduce il carico di malattia (valutato tramite il punteggio BILAG) con tempi alla riacutizzazione del LES variabili. In uno studio il 50% dei pazienti responsivi al trattamento è andato incontro ad una ricaduta dopo 6-18 mesi (recidiva precoce), mentre l’altra metà ha recidivato con tempi più lunghi (recidiva tardiva). L’andamento della deplezione/riaumento dei linfociti B era predittivo del tipo di recidiva. Tutti i pazienti che non avevano risposto al rituximab hanno evidenziato una persistenza dei linfociti B e il ripopolamento dei linfociti B della memoria e delle plasmacellule nuove (plasmablasti), dopo 26 settimane, è risultato molto più veloce nei pazienti con recidiva precoce rispetto a quelli con recidiva tardiva (Vital et al., 2011).
La possibilità di utilizzare il rituximab in pazienti con LES refrattari al trattamento standard trova conferma in uno studio condotto in contesto di pratica clinica. I pazienti arruolati (145) sono stati trattati con due infusioni di rituximab (1 g) a due settimane di distanza oppure con 4 infusioni (ciascuna da 375 mg/m2) a distanza di una settimana una dall’altra, in alcuni casi seguite da ulteriori due somministrazione dopo 1 e 2 mesi. Il follow up ha avuto una durata media di 27,3 mesi (oltre due anni). Dopo il primo ciclo di rituximab, l’85,8% dei pazienti ha mostrato risposta terapeutica, di cui il 45,5% era completa; la risposta a livello renale ha interessato il 94,1% dei pazienti, di cui il 30,9% mostrava una risposta renale completa a 12 mesi. Durante il periodo di osservazione, il tasso di riacutizzazioni di malattia sistemica e malattia renale è stato, rispettivamente, del 35,1% e del 31,2%. Nei pazienti che sono stati trattati con un secondo ciclo di rituximab, La risposta terapeutica è stata pari all’84,4%, di cui il 57,8% era completa. Il tasso di reazioni avverse, di infezioni e di reazioni all’infusione è stato pari al 23,8%, al 16,4% e al 3,8% nei pazienti trattati con un ciclo di rituximab; pari al 33,3%, al 22,2% e all’11,1% nei pazienti trattati con un secondo ciclo di farmaco (Iaccarino et al., 2015).
In pazienti con LES refrattario, la somministrazione di rituximab più ciclofosfamide e glucocorticoidi ha indotto stabilità della malattia in 12/33 pazienti con una durata minima del follow up di 6 mesi (durata media 39 mesi). La durata media della deplezione di cellule B è stata di 4 mesi (2 pazienti hanno presentato una deplezione di 73 e 8 mesi). La deplezione delle cellule B è stata accompagnata da benefici clinici: il punteggio di riferimento BILAG globale è diminuito da 13 a 5 in 5-8 mesi. Bassi livelli sierici di complemento (frazione C3) al basale (84% dei pazienti) sono stati associati a una durata minore del tempo che intercorre fra trattamento di deplezione delle cellule B e riacutizzazione. La presenza di anticorpi anti-ENA, soprattutto anticorpi anti-Sm (gli anticorpi anti-ENA sono un gruppo di anticorpi diretti contro antigeni del nucleo) è stata correlata ad una probabilità di recidivare più alta (in ogni momemento dopo la terapia di deplezione delle cellule B). La deplezione delle cellule B in pazienti con LES è stata accompagnata da eventi avversi gravi: sepsi pneumococccica, reazioni da malattia immunitaria complessa e convulsioni da iponatriamia (Ng et al., 2007).
Il rituximab ha evidenziato efficacia anche nel trattamento della nefrite lupica: in un piccolo studio pilota (6 pazienti) l’anticorpo monoclonale chimerico, in aggiunta alla terapia standard (ciclofosfamide), è stato associato a miglioramento dell’indice di attività SLEDAI (Systemic Lupus Erythematosus Disease Activity Index) per il lupus e della malattia renale; nel 50% dei pazienti è stata riportata riduzione nel numero dei linfociti CD3, CD4 e CD20 nel tessuto interstiziale renale (biopsia renale ripetuta) (Gunnarsson et al., 2007). La sola somministrazione di rituximab è risultata inoltre efficace come terapia di induzione in pazienti con LES quanto la combinazione con ciclofosfamide; l’aggiunta di ciclosfosfamide in un piccolo studio pilota in aperto non ha modificato gli esiti clinici, di laboratorio e dei reperti istologici renali (Li et al., 2009). In uno studio di fase III, randomizzato, in doppio cieco, placebo-controllato (studio LUNAR), la somministrazione di rituximab a pazienti con nefrite lupica proliferativa attiva non ha determinato un aumento del tasso di risposta terapeutica (risposta complessiva, parziale e completa: 56,9% vs 45,8%; p =0,18), anche se 8/72 pazienti del gruppo placebo hanno richiesto una terapia di salvataggio con ciclofosfamide fino al termine dello studio (durata: 52 settimane) contro nessun paziente del gruppo rituximab (tutti i pazienti arruolati nei due gruppi di trattamento erano in terapia con micofenolato mofetil e glucocorticoidi). Sebbene i pazienti trattati con rituximab hanno mostrato riduzioni più alte dei livelli di complemento C3 e C4 e di anticorpi anti-DNA a doppia elica (anti-dsDNA) (la presenza di questi anticorpi, sottogruppo degli anticorpi antinucleo ANA, si associa alla presenza di LES), questo non si è tradotto in un miglioramento degli esiti clinici. L’incidenza di eventi avversi gravi, incluso il tasso di infezioni, è risultto sovrapponibile, ma nel gruppo rituximab la percentuale di neutropenia, leucopenia e ipotensione è stata maggiore (Rovin et al., 2012). In un altro studio, in aperto, in pazienti (18) con nefrite lupica refrattaria e grave danno renale, la terapia con rituximab non è risultata prevenire la progressione verso lo stadio terminale e la dialisi (Davies et al., 2013).
Il rituximab ha mostrato efficacia anche nel trattamento della mielopatia lupica in un piccolo studio pilota che ha arruolato 6 pazienti con perdità di forza muscolare alle estremità di grado fino a 3. La somministrazione di rituximab e metilprednisolone (terapia “pulsata”, ovvero a giorni alterni) ha determinato remissione completa della miopatia dopo 12 mesi. Le infezioni del tratto urinario sono state l’evento avverso più frequente (Ye et al., 2011).
Il LES può associarsi a porpora trombocitopenica immune, malattia autoimmune per la quale i glucocorticoidi per os rappresentano il trattamento di prima linea.
In letteratura è stato riportato il caso di una paziente affetta da LES, in cui si è sviluppata porpora trombocitopenica autoimmune dopo aver iniziato un aterapia antitubercolare. Poiché la paziente presentava una controindicazione al trattamento con glucocorticoidi, è stata trattata con rituximab. Dopo 4 infusioni settimanali di rituximab (375 mg/m2), la trombocitopenia si è risolta e nei 29 mesi di osservazioni successive non si è manifestata nessuna recidiva (Lehembre et al., 2006).
Oftalmopatia tiroidea
L’oftalmopatia tiroidea è la manifestazione extratiroidea più comune (fino al 50% dei pazienti) associata al morbo di Graves (eccessiva produzione di ormoni tiroidei).
Indicazioni preliminari hanno evidenziato un’azione terapeutica positiva del rituximab verso l’oftalmopatia tiroidea: la deplezione transitoria delle cellule B indotta dall’anticorpo monoclonale migliora il punteggio di attività clinica (CAS) che scende da 4,7 a 1,8 sia nei pazienti con oftalmopatia attiva sia in quelli con solo segni palpebrali. Dopo trattamento con rituximab non sono state segnalate recidive, che invece hanno interessato il 10% dei pazienti in terapia standard (glucocorticoide). Anche l’incidenza degli effetti collaterali è stata inferiore nei pazienti trattati con l’anticorpo rispetto ai pazienti trattati con i glucocorticoidi (33% vs 45%). L’efficacia del rituximab è risultata indipendente dalla funzione tiroidea (i pazienti con ipotiroidismo hanno richiesto un trattamento specifico con metimazolo) e dalla presenza di anticorpi antitiroidei circolanti (anticorpi antitiroglobulina, anticorpi antiperossidasi tiroidea, anticorpi anti recettore TSH) (Salvi etal., 2007). Benefici sono stati riscontrati anche in pazienti con patologia progressiva, resistente a terapia corticosteroidea (Khanna et al., 2010). Diversi studi sono stati condotti in questo ambito, ma seconda una revisione Cochrane le evidenze disponibili non sono sufficienti per sostenere l’uso del rituximab nella pratica clinica del trattamento dell’oftalmopatia tiroidea (Kang et al., 2022).
Altri impieghi terapeutici off label
La somministrazione di rituximab ha indotto benefici terapeutici nel trattamento di alcune malattie autoimmuni quali il pemfigo paraneoplastico (anche noto come sindrome paraneoplastica autoimmune multiorgano) da linfoma delle cellule B sia in monoterapia che in associazione a glucocorticoidi e ciclosporina (Barnadas et al., 2006; Frew, Murrell, 2011; Antiga et al., 2023); la piastrinopenia autoimmune (trombocitopenia immune, ITP) come farmaco non di prima linea, in alternativa alla splenectomia (Gutierrez-Espindola et al., 2023; Song, Al-Samkari, 2021; Neunert et al., 2019); la sindrome-emolitica uremica grave (Yassa et al., 2005, Gourley et al., 2010; Deville et al., 2016); l’anemia emolitica autoimmune refrattaria in pazienti pediatrici (Zecca et al., 2003) e in pazienti anziani (Laribi et al., 2016); la nefropatia membranosa idiopatica (Remuzzi et al.,2002).