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Carnitina

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Farmacologia - Come agisce Carnitina?

La carnitina (acido 3-idrossi-4-N-trimetilaminobutirrico; INN: carnitine) è un derivato aminoacidico essenziale della cellula animale. La presenza di un carbonio chirale (atomo di carbonio legato a 4 gruppi di atomi diversi) nella molecola dà origine a due forme speculari fra loro, la D-carnitina e la L-carnitina. La forma farmacologicamente attiva e presente negli alimenti è la L-carnitina (levocarnitina).

Nell’organismo umano la carnitina è sintetizzata nel fegato e nel rene a partire dagli aminoacidi lisina e metionina in presenza di alcuni cofattori: ferro, vitamina C, vitamine B1 e B6. Dalle sedi di sintesi, la carnitina raggiunge attraverso il torrente circolatorio i diversi tessuti dove viene assorbita con un meccanismo di trasporto attivo (Rebouche, Engel, 1980). Il fabbisogno di carnitina è soddisfatto per la maggior parte dalla sintesi endogena a cui si aggiunge una quota minore fornita con gli alimenti. Fonti esterne di carnitina sono rappresentate da carne, latte e derivati. Con gli alimenti la quota di carnitina normalmente introdotta si aggira sui 60-120 mg/die; nei vegetariani stretti (vegani), questa quota scende a 10-12 mg/die (Rebouche, 1999; Rebouche, 2004). La carnitina è considerata un nutriente essenziale condizionato in quanto, in determinate condizioni patologiche, il suo mancato apporto con la dieta provoca uno stato carenziale. Questo si verifica in caso di disordini ereditari dei processi di sintesi della carnitina, insufficienza epatica, emodialisi, nei neonati prematuri (biosintesi insufficiente e/o perdita renale), aciduria (eliminazione della carnitina legata agli acidi grassi).

Il 98% della carnitina presente nell’organismo si trova nel muscolo scheletrico e nel cuore; l’1-6% si trova nel fegato, mentre la restante parte nel liquido extracellulare (Engel, Rebouche, 1984).

I valori normali di carnitina nel plasma sono circa pari a 25 micromoli/L nel bambino e a 54 micromoli/L nell’adulto. Nel sangue e nei tessuti la carnitina è presenta sia come carnitina libera sia sotto forma di esteri di acil-carnitina, di cui il più importante è l’acetil-carnitina. Nella pratica clinica, la diagnosi di carenza di carnitina viene posta quando la concentrazione plasmatica è inferiore a 2 micromoli/L o quando la concentrazione nei tessuti è minore del 10-20% rispetto al valore normale.

La carnitina (L-carnitina) è un cofattore fondamentale nel metabolismo intermedio lipidico. Funge da trasportatore degli acidi grassi a lunga catena dal citoplasma cellulare nei mitocondri dove, per effetto della beta-ossidazione, gli acidi grassi sono utilizzati per produrre energia, disponibile per la cellula sotto forma di ATP. Gli acidi grassi forniscono energia a tutti i tessuti ad eccezione del cervello e per il muscolo cardiaco e scheletrico rappresentano la fonte di energia primaria. La beta-ossidazione è un processo che inizia nel citoplasma cellulare e termina nel mitocondrio. Il primo step prevede l’incorporazione, nel citoplasma, degli acidi grassi a lunga catena nell’acil-Coa in presenza di CoenzimaA (CoA, CoASH) e adenosin-trifosfato (ATP). L’acil-CoA viene esterificato ad acilcarnitina per mezzo dell’enzima carnitina palmitotransferasi I (CPT 1, anche nota come carnitina aciltransferasi I, CAT1). L’acilcarnitina attraversa la membrana mitocondriale per mezzo dell’enzima carnitina-acilcarnitina translocasi (CAT) presente sulla membrana mitocondriale interna che scambia acil-carnitina con carnitina libera. Nel mitocondrio l’acilcarnitina è de-esterificata ad acil-CoA ad opera dell’enzima carnitina palmitotransferasi II (CPT 2, anche nota coma carnitina aciltransferasi II, CAT II). L’acil-CoA subisce beta-ossidazione con formazione di acetil-CoA che entra nel ciclo di Krebs (Goa, Brogden, 1987).

La carnitina (L-carnitina) interviene in modo indiretto anche sul metabolismo di glucidi e protidi: riduce l’utilizzazione periferica di glucosio in quanto aumenta la beta-ossidazione ed aumenta l’energia disponibile per incremento della quota di acetili che entrano nel ciclo di Krebs. La carnitina svolge un ruolo importante in tutte le reazioni di transacetilazione (Janiri, Tempesta, 1983); è coinvolta nel metabolismo dei chetoni e degli aminoacidi a catena ramificata finalizzato alla produzione di energia (Fukao et al., 2004; Platell et al., 2000); in vitro, la carnitina è risultata aumentare l’ossidazione della valina e della leucina (Bieber et al., 1982; Van Hinsberg et al., 1978 e 1980).

La carnitina è risultata ridurre lo stress ossidativo e inibire l’apoptosi o la morte cellulare programmata (inibizione della formazione di ceramide dal palmitato; la ceramide svolge la funzione di promotore dell’apoptosi) (Cifone et al., 1997); è risultata svolgere una funzione di protezione in caso di intossicazione da neurotossine (Virmani et al., 2003); di stabilizzatore di membrana in caso di ischemia (in vivo) (Hulmann et al., 1996); è coinvolta nei processi di riparazione della membrana cellulare (la carnitina palmitoil-transferasi, CPT, è risultata svolgere un ruolo chiave nel turnover dei fosfolipidi e dei trigliceridi a livello della cellula neuronale (Arduini et al., 1994).

La carnitina è risultata stimolare la risposta immunitaria e ridurre il rilascio di citochine pro-infiammatorie (Winter et al., 1995); è risultata promuovere la maturazione di feto, polmone e sperma (Arenas et al., 1998; Lohninger et al., 1996; Palmero et al., 2000).

La carenza di carnitina (L-carnitina) può verificarsi in caso di difetti congeniti di sintesi (la produzione endogena di carnitina avviene a livello epatico e renale), di trasporto, di utilizzazione (della carnitina esogena assunta con gli alimenti di origine animale). La mancanza di carnitina (L-carnitina) impedisce il catabolismo degli acidi grassi e quindi il loro utilizzo come fonte di energia; comporta l’accumulo degli acidi grassi nel citoplasma cellulare e di acilCoA nel mitocondrio. La malattia presenta due forme principali, miopatica e sistemica e una quindicina di forme secondarie. I sintomi comprendono miopatia per accumulo di lipidi nella cellula muscolare striata e/o miocardica (cardiomiopatia), vomito episodico, encefalopatia, epatomegalia, ipoglicemia ipochetotica, sindrome di Reye (Karpati et al., 1975; Chapoy et al., 1980; Waber et al., 1982). In caso di carenza primaria miopatica, l’accumulo di lipidi interessa prevalentemente le fibre muscolari e i sintomi prevalenti sono debolezza muscolare, ipotonia, atonia e atrofia. In caso di carenza primaria sistemica compare un’encefalopatia metabolica dovuta all’accumulo di depositi lipidici a livello epatico con conseguente insufficienza d’organo.

In terapia viene usato l’isomero levogiro (L-carnitina) che costituisce la forma attiva della molecola; la somministrazione della forma racemica della carnitina (D,L-carnitina) è risultata provocare carenza di carnitina (effetto paradosso) (Keith, 1986). In alternativa alla L-carnitina tal quale, possono essere somministrati due suoi metaboliti, l’acetil-carnitina e la propionil-carnitina. La prima viene assorbita in quantità maggiore a livello intestinale rispetto alla L-carnitina e attraversa più facilmente la barriera ematoencefalica (Liu et al., 2004).

Il deficit primario di carnitina è causato dall’assenza completa o parziale del carrier Na-dipendente deputato al passaggio della carnitina attraverso la membrana plasmatica della cellula muscolare, intestinale (mucosa) o renale. La terapia con carnitina esogena (3-5 g/die) permette la risoluzione completa dei sintomi (livelli plasmatici di carnitina molto bassi, cardiomiopatia dilatativa, miopatia, anemia, elettrocardiogramma anomalo). Deficit secondari dipendono da difetti enzimatici a carico del processo di beta-ossidazione degli acidi grassi a lunga catena (Lancet, 1990). la sintomatologia che compare in caso di difetti del ciclo della carnitina sono in parte sovrapponibili a quelli della sindrome di Reye.

Deficit secondari di carnitina possono verificarsi in diverse condizioni patologiche. In caso di nutrizione parenterale prolungata (oltre un mese), di sepsi, ustione, inedia e intervento chirurgico si può verificare una riduzione della carnitina immagazzinata nell’organismo per una riduzione della sintesi o per un aumento della sua escrezione (come carnitina libera e/o acil-carnitina). E’ stato infatti osservato che condizioni di stress dell’organismo che provocano un aumento della lipolisi e/o del catabolismo proteico per soddisfare un surplus del fabbisogno energetico, determinano un aumento dell’escrezione renale della carnitina che non necessariamente comporta una riduzione dei suoi livelli plasmatici (questi possono rimanere costanti a scapito della quantità totale di carnitina immagazzinata che invece diminuisce) (Nanni et al., 1983).

Livelli inadeguati di carnitina sono stati osservati anche nei nati prematuri, probabilmente per immaturità del processo di sintesi e riassorbimento renale insufficiente.

Una riduzione dei livelli plasmatici di carnitina è stata osservata in pazienti affetti dalla sindrome di De Toni-Fanconi-Debré (Bernardini et al., 1985); in pazienti dializzati (Guarnieri et al., 1987); in pazienti trattati con sodio valproato, pivmecillina e pivampicillina (Matsuda et al., 1986; Laub et al., 1986; Holme et al., 1989).

La sindrome di De Toni-Fanconi-Debré, nota anche come sindrome di Fanconi, da non confondere con l’anemia di Fanconi, è una malattia metabolica che interessa il trasporto di aminoacidi, monosaccaridi, elettroliti, acido urico, proteine a livello del tubulo renale. Le cause possono essere congenite o acquisite; le manifestazioni cliniche comprendono rachitismo, ritardo nell’accrescimento e osteomalacia. Nei pazienti affetti da questa sindrome si verifica una riduzione della concentrazione di carnitina libera e totale (la quota di carnitina libera e di acil-carnitina eliminata è risultata rispettivamente pari al 33% e al 26%, e significativamente più elevata rispetto al normale, rispettivamente pari al 35 e al 5%; inoltre la quantità totale di carnitina libera escreta è risultata correlare con la quantità totale di aminoacidi eliminata) (Bernardini et al., 1985).
 
Nei pazienti dializzati la quantità di carnitina libera presente nel plasma tende a diminuire con conseguente aumento del rapporto fra acil-carnitina e carnitina libera. La carnitina infatti è una molecola di piccole dimensioni che non si lega alle proteine plasmatiche e che, quindi, può essere facilmente estratta in caso di emodialisi. Circa il 70% della carnitina presente nel sangue viene persa durante un’unica seduta dialitica. Successivamente, nell’intervallo fra una seduta dialitica e quella successiva, i livelli di carnitina tendono a ritornare al valore predialisi, ma la concentrazione plasmatica media di carnitina (calcolata dividendo il valore medio dell’AUC per la durata di tempo fra due sedute dialitiche successive) risulta diminuita rispetto all’individuo sano. In caso di dialisi continua, si verifica il progressivo passaggio di carnitina dalle sedi di stoccaggio, in particolare il tessuto muscolare, verso il torrente circolatorio, con un depauperamento progressivo delle riserve endogene fino a comparsa di deficit secondario di carnitina. In questi pazienti l’apporto esogeno di carnitina (L-carnitina) permette di reintegrarne le perdite che avvengono durante la dialisi, riducendo la sintomatologia muscolare (astenia, crampi) associata al trattamento dialitico. La somministrazione di 20 mg/kg endovena di L-carnitina a pazienti con malattia renale allo stadio terminale, sottoposti a emodialisi, ha ritardato la comparsa di fatigue (tempo libero da fatigue: +22%) e diminuito la formazione di lattato dopo attività fisica (37%). Sono risultati migliorare anche alcuni parametri biochimici relativi allo stress ossidativo cellulare come il rapporto glutatione ridotto/ossidato (aumentato di 2,7 volte a riposo e 4 volte dopo sforzo), l’attività della glutatione-perossidasi (aumentata del 4,5% a riposo e del 10% dopo sforzo), la concentrazione di malondialdeide (diminuita del 19% a riposo e dopo sforzo) e di proteine carbonilate (diminuite del 27% a riposo e del 40% dopo sforzo) (Fatouros et al., 2010).

Nei pazienti in terapia con sodio valproato, pivmecillina e pivampicillina, l’escrezione di queste molecole può avvenire anche per coniugazione con carnitina (valproil-carnitina, pivaloil-carnitina) con conseguente riduzione di carnitina libera plasmatica, aumento del rapporto acil-carnitina/carnitina libera e deplezione delle riserve plasmatica e muscolare di carnitina. Il valproato inoltre provoca epatotossicità da danno mitocondriale per inibizione della beta-ossidazione degli acidi grassi. In vitro, l’inibizione esercitata dal valproato sembrerebbe verificarsi per interazione con l’enzima carnitina palmitol-transferasi (CPT1) (Aires et al., 2010). Nella pratica clinica infatti la somministrazione di L-carnitina è risultata efficace nel trattamento dell’epatotossicità indotta da acido valproico (Romero-Falcon et al., 2003; Bohan et al., 2001).

La supplementazione di carnitina è risultata utile a livello cardiovascolare nel trattamento dell’ischemia. Per la cellula muscolare striata, quindi cuore e muscolo scheletrico, gli acidi grassi beta-ossidati rappresentano il principale substrato energetico. La beta-ossidazione degli acidi grassi, a livello del muscolo cardiaco, sembra inoltre essere dipendente dalla quota di L-carnitina disponibile. E’ stato osservato come, in caso di ischemia, la riduzione del flusso coronarico determini un’alterazione del metabolismo della cellula miocardica che si associa ad una diminuzione dei livelli endogeni di carnitina libera e ad un aumento della concentrazione intracellulare di acil-CoA esteri a lunga catena (Liedtke et al., 1978). La supplementazione con carnitina esogena dopo infarto del miocardio è stata associata ad una riduzione della necrosi e ad effetti antiaritmogeni (Spagnoli et al., 1982; Rizzon et al., 1989). In pazienti trattati con carnitina (L-carnitina) per 12 mesi dopo infarto miocardico hanno evidenziato un rallentamento nella dilatazione ventricolare, senza comunque modificare l’incidenza dell’insufficienza cardiaca o della mortalità (Iliceto et al., 1995). In un altro studio, la somministrazione di carnitina (L-carnitina) (2 g/die) per un mese è stata associata ad una diminuzione delle dimensioni dell’infarto, dell’incidenza di angina e di insufficienza cardiaca (Singh et al., 1996). In pazienti con angina da sforzo stabilizzata, la somministrazione di carnitina ha aumentato la tolleranza allo sforzo e ridotto la depressione del segmento ST a livello elettrocardiografico, anche se con esiti inferiori, non paragonabili alla terapia farmacologia standard (Cherchi et al., 1985).

Benefici clinici positivi sono stati osservati anche in caso di claudicatio intermittente (incremento della tolleranza allo sforzo segnalato dall’aumento della distanza percorribile a piedi) e nel caso della chemioterapia con antracicline (riduzione della cardiotossicità delle antracicline) (Brevetti et al., 1988; Goa, Brogden, 1987).

La claudicatio intermittente è una vasculopatia periferica dovuta ad ostruzione arteriosclerotica che si manifesta con crampi muscolari sotto sforzo. la somministrazione di carnitina, sotto forma di propionil-carnitina (2 g/die per 12 mesi) è risultata efficace nell’aumentare il tempo libero da crampi durante l’attività fisica (incremento della distanza massima percorsa a piedi) rispetto ai controlli (nei pazienti con distanza massima < 250 m al basale, il beneficio della supplementazione con carnitina è stato quantizzato in un aumento del 98+/-16% vs 54+/-10% nel gruppo di controllo) (Brevetti et al., 1999; Hiatt et al., 2001).

In un piccolo studio clinico basato su tre case reports, la carenza primaria di carnitina è stata associata a sindrome dell’intervallo QT breve (Roussel et al., 2015). Il tratto o intervallo QT dell’elettrocardiogramma (ECG) corrisponde alla fase di ripolarizzazione dei ventricoli. La sindrome del QT breve è caratterizzata da una riduzione della durata di questo intervallo che si associa ad aritmie ventricolari e a morte improvvisa anche in giovane età. Ad oggi la sindrome del QT breve è stata correlata a mutazioni che interessano geni che codificano per il canale del potassio e del calcio. La relazione fra deficit di carnitina e sindrome del QT breve è stata indagata utilizzando un modello murino (topo) in cui la carenza di carnitina era stata ottenuta somministrando per via sottocutanea a lungo termine mildronato, una sostanza in grado di inibire la proteina OCTN2 (Organic Cation Transport Na+), trasportatore di cationi organici Na-dipendente, che funziona come trasporatore ad alta affinità di carnitina attraverso la membrana plasmatica, all’interno delle cellule. Nei topi, il monitoraggio dell’ECG ha evidenziato una correlazione inversa fra accorciamento dell’intervallo QT e concentrazione plasmatica di carnitina.

In vivo la somministrazione di L-carnitina è risultata efficace nell’antagonizzare il danno epatico associato ad elevati livelli cumulativi dell’antraciclina doxorubicina. L’azione della carnitina si è manifestata sia a livello dei parametri biochimici (concentrazione della alanino-aminotransferasi, fosfatasi alcalina, bilirubina e carnitina totali, rapporto nitrati/nitriti) la cui riduzione è risultata inferiore rispetto a quanto osservato in assenza dell’aminoacido sia nel ridurre lo stress ossidativo (mantenimento dei livelli di glutatione, superossido dismutasi, glutatione perossidasi, glutatione-s-transferasi, glutatione reduttasi e catalasi) (Alshabanah et al., 2010).

Nel trattamento dell’astenia cronica (“fatigue“) nei pazienti anziani, la somministrazione di carnitina è risultata efficace nel migliorare le performance sia fisiche sia psichiche. In pazienti anziani con età > 70 anni, soddisfacenti almeno 4 criteri maggiori della classificazione di Holmes o 6 criteri minori della classificazione di Fukuda, il trattamento con acetil-L-carnitina ha permesso di migliorare in modo significativo (p<0,001) il punteggio relativo ad affaticamento fisico, affaticamento mentale, gravità della fatigue, funzionalità motoria e cognitiva. Rispetto ai pazienti che non erano stati trattati con l’acetil-L-carnitina, il gruppo in terapia con il farmaco aveva evidenziato un miglioramento statisticamente significativo anche del dolore muscolare, della fatigue conseguente ad attività fisica e dei disturbi del sonno (Malaguarnera et al., 2008). Benefici clinici sono stati osservati anche in caso di fatigue indotta dalla terapia interferonica in pazienti con epatite C (Neri et al., 2003); nella sindrome da affaticamento cronico (Chronic Fatigue Syndrome) (Plioplys, Plioplys, 1997).

Poichè la concentrazione di carnitina tende a diminuire con l’età, è stato ipotizzato che la supplementazione di L-carnitina nei pazienti anziani possa indurre dei benefici sul deterioramento delle performance cognitive-mnemoniche (pazienti affetti da alzheimer trattati con 1,5-3 g/die di acetil-carnitina fino a 12 mesi) (Montgomery et al., 2003). In studi preclinici (ratto) l’aggiunta nella dieta di elevate quantità di acetil-carnitina associata ad acido alfa-lipoico hanno aumentato la mobilità degli animali e migliorato le risposte ai test mnemonici (Liu et al., 2002 e 2002a).

Sulla base dell’osservazione che la carnitina è presente in elevata quantità nel liquido spermatico è stato ipotizzato un suo possibile ruolo nel trattamento dell’infertilità maschile. Gli esiti degli studi clinici hanno dato risultati contrastanti. In alcuni studi la somministrazione di carnitina (fino a 4 g/die per 3-4 mesi) è stata associata ad un miglioramento della qualità e della motilità spermatica. In uno studio della durata di 4 mesi, invece, la supplementazione con carnitina non ha migliorato nè la motilità spermatica nè la conta spermatica rispetto ai controlli (Vitali et al., 1995; Vicari et al., 2001; Lenzi et al., 2003; Sigman, 2006).

La carnitina esercita un effetto antagonista verso gli ormoni tiroidei ostacolandone il trasporto nel nucleo in alcuni tessuti periferici (epatociti, neuroni, fibroblasti). La somministrazione del derivato aminoacidico (2-4 g/die per 6 mesi) a donne trattate con tiroxina (L-T4) a dosi in grado di sopprimere il rilascio di TSH (ormone tireotropo) è stata associata a reversibilità o prevenzione dei sintomi da ipertiroidismo e a benefici clinici sulla mineralizzazione ossea (Benvenga et al., 2001).

La somministrazione di dosi elevate di carnitina è stata associata ad aumento dei livelli di linfociti CD4 in pazienti HIV-positivi non in terapia antiretrovirale (6 g/die per 4 mesi) (Moretti et al., 1998); riduzione dei livelli di tumor necrosis factor alfa in pazienti con AIDS, trattati con zidovudina (De Simone et al., 1993); riduzione degli effetti tossici di zidovudina e didanosina, inclusi apoptosi dei linfociti CD4 e CD8 e stress ossidativo cellulare, in pazienti con HIV (Moretti et al., 2002).

La sindrome dell’X fragile è una malattia genetica rara (maschi: 1/4000; femmine: 1/6000) che comporta ritardo mentale, disfunzioni specifiche dell’apprendimento, difficoltà comportamentali e autismo. Spesso è associata a sindrome da iperattività (adhd). La somministrazione di acetil-carnitina (20-50 mg/kg/die) a bambini di età compresa fra 6 e 13 anni affetti da sindrome dell’X fragile e adhd ha determinato una riduzione significativa dell’iperattività e un miglioramento dei comportamenti sociali dei bambini trattati rispetto al gruppo di controllo (Torrioli et al., 2008).

La carnitina è usata per migliorare le performance nello sport agonistico anche se le evidenze scientifiche sono risultate contrastanti (Brass, 2000; Brass. 2004). In questo ambito la supplementazione di carnitina servirebbe a migliorare il metabolismo energetico favorendo la conversione di piruvato ad acetilCoa con minor produzione di lattato a livello muscolare. Il minor stress muscolare favorirebbe la prestazione sportiva dell’atleta soprattutto nella tolleranza allo sforzo. Secondo alcuni autori la carnitina risulterebbe più utile in caso di esercizio fisico di intensità contenuta ma protratto nel tempo (aumento del consumo di lipidi tissutale) piuttosto che di elevata intensità ma di breve durata (Wyss et al., 1990).

In uno studio clinico finalizzato a valutare l’impatto della supplementazione prolungata di carnitina sul metabolismo muscolare durante l’esercizio fisico, è emerso come nei soggetti trattati con la carnitina, durante l’esercizio fisico moderato, si verifichi un “risparmio“ delle riserve di glicogeno muscolare, in accordo con un maggior utilizzo dei lipidi come fonte energetica; mentre in caso di elevata attività fisica, la carnitina migliori la glicolisi riducendo la formazione anaerobica di ATP muscolare. Nello studio la somministrazione esogena di carnitina (4 g/die) per 24 settimane ha determinato un aumento del 21% rispetto al basale (P<0,05) della quantità totale di carnitina nel tessuto muscolare (nessuna variazione nel gruppo di controllo). Inoltre, in condizioni di esercizio fisico moderatamente intenso, i pazienti trattati con carnitina hanno evidenziato una riduzione del consumo di glicogeno muscolare pari al 55% e una minor attivazione (-31%) del complesso della piruvato deidrogenasi (PDC) rispetto al gruppo di controllo (p<0,05 per entrambi i parametri). In condizioni di esercizio fisico intenso invece i pazienti trattati con carnitina hanno evidenziato una aumento dell’attivazione della PDC (+38%) e del contenuto di acetil-carnitina nella cellula muscolare (+16%) a fronte di una riduzione nella produzione di acido lattico (-44%) rispetto al gruppo di confronto. A livello di performance atletiche, il gruppo trattato con carnitina ha migliorato la propria attività fisica dell11% (Wall et al., 2011).