La vitamina K, scoperta nel 1929, è una vitamina liposolubile la cui funzione più nota è quella di essere un fattore essenziale nella coagulazione del sangue, tanto è vero che la designazione “K” deriva dal tedesco “Koagulationsvitamin” (Index Merck, Thirteenth Edition). Ma il suo ruolo non si esaurisce nell’attivazione dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti. Sulla base di evidenze sperimentali, la maggior parte delle quali precliniche, le funzioni biologiche della vitamina K spaziano dal mantenimento dell’omeostasi calcica nel tessuto osseo alla mobilitazione di calcio dai vasi e dai tessuti molli, ad effetti di epato e neuroprotezione (Yan et al., 2023). Sebbene però i dati sperimentali supportino un ruolo biologico della vitamina K polivalente, la rilevanza clinica di una supplementazione di vitamina K in ambiti diversi da profilassi e trattamento di emoraggie da ipoprotrombinemia vitamina K-dipendente è oggetto di ricerca e dibattito all’interno del mondo accademico.
Vitamina K: più di una molecola
La vitamina K comprende un gruppo di sostanze derivate dal 2-metil-1,4-naftochinone (menadione) - spesso si utilizza la dicitura generica naftochinone per indicare le diverse forme di vitamina K – distinte in vitamina K1, vitamina K2 e vitamina K3.
Le vitamina K1 e K2 possiedono struttura chimica simile: l’anello naftochinonico presenta sul carbonio C3 una catena laterale policarboniosa, fitilica con un solo doppio legame per K1 e isoprenilica per K2. La catena laterale di K2 presenta lunghezza variabile a seconda del numero di unità isopreniliche che si ripetono, da 2 a 15 (Kurosu, Begari, 2010). Con il termine “vitamina K2” pertanto si fa riferimento ad un gruppo di sostanze indicate con il nome di menachinone (MK) seguito dal numero di unità isopreniliche che formano la catena laterale. La vitamina K3 si differenzia da K1 e K2 per l’assenza della catena laterale carboniosa sul carbonio C3 dell’anello naftochinonico.
La vitamina K1, anche chiamata fillochinone, fitomenadione o fitonadione, ha un’origine vegetale: si trova principalmente negli ortaggi a foglia verde. Assunta esclusivamente con la dieta, è assorbita nella parte finale dell’intestino tenue (ileo). Interviene nei processi di attivazione della protrombina e dei fattori di coagulazione del sangue VII, IX e X. E’ stata sintetizzata per la prima volta nel 1939 e approvata dall’Agenzia regolatoria statunitense (Food and Drug Administration, FDA) per l’impiego clinico nel 1955.
La vitamina K2 o menachinone è sintetizzata da alcuni batteri che colonizzano il nostro intestino. La vitamina K2 si può trovare anche in alimenti di origine animale quali uova e burro, o ottenuti per fermentazione come il natto (Shearer, Newman, 2014). Il natto è un alimento giapponese ottenuto dai fagioli di soia che contiene la più alta percentuale di vitamina K2. L’assorbimento dei menachinoni avviene probabilmente a livello del colon; i più importanti menachinoni presenti nell’intestino sono MK10 e 11 (prodotti da Bacteroides), MK8 (Enterobacteria), MK7 (Veillonella) e MH6 (Eubacterium lentum) (Shearer, Newman, 2014). MK7 è il menachinone con la biodisponibilità più alta e l’emivita più lunga. Il menachinone 4 (MK4) rappresenta la forma di vitamina K2 maggiormente presente nei tessuti extraepatici (cervello, reni, pancreas) del nostro organismo. MK4 si forma per conversione della vitamina K1 o K3 o per conversione di altri menachinoni con catena laterale più lunga (Yan et al., 2023; EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies, 2017). MK4 risulta l’analogo della vitamina K2 con la più alta bioattività.
Da un punto di vista evolutivo, i menachinoni e la vitamina K1 risultano affini: probabilmente la vitamina K1 può essere considerata come un derivato di MK4 per saturazione dei doppi legami presenti sulla catena laterale (Shearer, Newman, 2014).
La vitamina K3 (menadione) si forma nelle cellule come intermedio nella sintesi di MK4 a partire dalla vitamina K1 o da menachinoni con una lunga catena laterale. E’ probabile che la conversione di K1 in K3 per perdita della catena policarboniosa laterale avvenga nelle cellule intestinali e che poi la vitamina K3 sia trasportata ai tessuti periferici e qui utilizzata per la sintesi di MK4 (Shearer, Newman, 2014). La vitamina K3 viene prima convertita in idrochinone per azione di un enzima redox e poi subisce una reazione di prenilazione per inserire la catena laterale isoprenilica per azione dell’enzima UBIAD1, enzima scoperto “solo” nel 2010. I derivati idrosolubili del menadione, come il menadiolo sodio difosfato, sono molecole di sintesi con un uso clinico analogo a quello della vitamina K1: ipoprotrombinemia da deficit di vitamina K.
La vitamina K è liposolubile e il suo assorbimento intestinale richiede la presenza di lipidi e sali biliari. Le malattie che alterano la formazione o il flusso della bile possono ridurre l’assorbimento intestinale della vitamina K. Queste malattie possono essere a carico del fegato (epatite, cirrosi), della cistifellea (colelitiasi, colecistite), dei dotti biliari (calcoli biliari, colangite) e del pancreas (pancreatite). Anche la sindrome dell’arteria mesenterica superiore può modificare l’assorbimento della vitamina K perché altera il flusso biliare.
Una volta assorbita attraverso la mucosa intestinale, la vitamina K viene trasportata nel sistema linfatico mesenterico inglobata nei chilomicroni, la frazione di lipoproteine plasmatiche a diametro maggiore (>75 nm) e a minor densità. Tramite il dotto toracico passa poi nel sangue, veicolata in lipoproteine più piccole e più dense, le VLDL (Very low density lipoprotein;diametro: 30-80 nm) e le LDL (Low density lipoprotein; diametro 18-25 nm), e da queste rilasciata nei tessuti.
Nel nostro organismo la maggior parte di vitamina K1 presente è immagazzinata nel fegato, mentre nei tessuti extraepatici la vitamina K è presente soprattutto come MK4 (Yan et al., 2023).
Livelli di assunzione adeguata di vitamina K
I livelli di assunione adeguata di vitamina K non sono definiti in maniera univoca, ma variano a seconda delle agenzie di riferimento.
La Società Italiana di Nutrizione ha indicato i seguenti valori di riferimento per la vitamina K, genericamente intesa, senza distinzione tra K1 e K2 (Società Italiana di Nutrizione – SINU, 2014):
L’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA, European Food Safety Authority) propone livelli di assunzione adeguata solo per la vitamina K1 data la mancanza di dati sufficienti relativi a disponibilità, assorbimento, funzione e contenuto di vitamina K2 (menachinoni). L’EFSA conferma come livello di assunzione adeguata di vitamina K1 quello proposto nel 1993 dalla Scientific Committee for Food, ovvero 1 mcg/die, indipendentemente da età e sesso (EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies, 2017). Pertanto i livelli di assunzione adeguata giornaliera di vitamina K1 sono pari a:
Negli USA, i livelli raccomandati di assunzione per i nutrienti, inclusa quindi la vitamina K, sono forniti dal Food and Nutrition Board (FNB) dell’Institute of Medicine of the National Academies. Riportiamo di seguito i livelli di assunzione giornaliera adeguata per la vitamina K (National Institutes of Health – NIH, 2021):
Adulti (sesso maschile): 120 mcg
Adulti (sesso femminile): 90 mcg
Gravidanza: 90 mcg
Allattamento: 90 mcg
Ragazzi (14-18 anni): 75 mcg
Bambini (9-13 anni): 60 mcg
Bambini (1-3 anni): 30 mcg
Bambini (7-12 mesi): 2,5 mcg
Lattanti (fino a 6 mesi): 2,0 mcg
Ipovitaminosi
Sebbene esistano diverse proteine la cui attivazione metabolica richieda la presenza di vitamina K, il solo biomarcatore la cui variazione (aumento) è legata ad uno stato di ipovitaminosi è il tempo di protrombina. Per gli altri potenziali biomarcatori (fattori di coagulazione vit. K-dipendenti, proteine vit. K-dipendenti non carbossilate, concentrazione di vitamina K nel sangue, concentrazione di metaboliti della vitamina K nelle urine) i dati di letteratura non evidenziano una relazione dose-risposta chiara e univoca con l’assunzione di vitamina K (K1), per cui nessuno di questi biomarcatori può essere preso come riferimento standard per valutare un apporto adeguato di vitamina K (EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies, 2017).
Negli adulti, la carenza di vitamina K si manifesta clinicamente con la tendenza al sanguinamento. La sintomatologia compare dopo 2-3 settimane di introito insufficiente di vitamina K1 (<10 mcg/die) (EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies, 2017). Nei neonati il rischio di emorragia da ipoprotrombinemia per deficit di vitamina K interessa soprattutto i prematuri e i bambini allattati esclusivamente al seno perché il latte materno, fisiologicamente, contiene scarse quantità di vitamina K. Nei ragazzi e negli adulti, in condizioni normali, alimentazione, microbiota, e riciclo intracellulare, soddisfano il fabbisogno giornaliero di vitamina K. Stati di carenza sono considerati poco frequenti e possono dipendere da: a) un’alimentazione non adeguata (digiuno, dieta povera, nutrizione parenterale), b) malassorbimento intestinale (malattia celiaca, diarrea cronica, colestasi subclinica, fibrosi cistica, atresia dei dotti biliari, difetto di alfa1-antiripsina, A-beta-lipoproteinemia), c) terapie farmacologiche (terapia prolungata con warfarin o farmaci analoghi, anticonvulsivanti, antibiotici ad ampio spettro in particolare cefalosporine, alte dosi di salicilati), d) alcolismo (Rugarli, 2021). Uno stato di ipovitaminosi perché diventi sintomatico in genere richiede la presenza di più fattori di rischio, ad esempio può verificarsi in un paziente sottoposto a nutrizione parenterale e terapia antibiotica. La vitamina K (come vitamina K1) forma depositi transitori nel fegato, per cui l’apporto esterno deve essere costante.
Ipervitaminosi
Le organizzazioni che si occupano di alimentazione non hanno definito livelli massimi di tollerabilità per la vitamina K (EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition and Allergies, 2017). Non ci sono dati su eventuali intossicazioni per un eccessivo apporto dietetico di vitamina K naturale. Un discorso diverso riguarda la somministrazione di vitamina K come terapia farmacologica. Nei neonati, la somministrazione di dosaggi eccessivi di vitamina K provoca un quadro clinico simile all’ittero (nei neonati, specialmente se prematuri, la vitamina K è raccomandata come profilassi per emorragie da deficit di vitamina K).
Meccanismo d’azione della vitamina K
La vitamina K agisce come cofattore dell’enzima gamma-glutamil-carbossilasi (GGCX). Questo enzima catalizzata la conversione di residui di acido glutammico in acido gamma-carbossi-glutammico, funzionale a legare ioni calcio (Berkner, 2000). Questa reazione, scoperta nel 1974, è determinante per l’attivazione di diverse proteine:
La forma attiva della vitamina K è la forma idrochinonica (dididrovitamina K o KH2). La conversione dalla forma chinonica a quella idrochinonica è catalizzaao da un’enzima (reduttasi) NADPH-dipendente. Nella reazione di carbossilazione, in cui la vitamina K interviene come co-fattore e che richiede la presenza anche di O2 e CO2, la vitamina K idrochinone è convertita in vitamina K-epossido; l’epossido è quindi riconvertito in vitamina K chinone dall’enzima vitamina K epossido reduttasi o VKOR, la cui scoperta risale al 2004. A questo punto la vitamina K chinone può essere nuovamente riutilizzata (ciclo della vitamina K o ciclo della vitamina K epossido). L’enzima VKOR interviene anche nella riduzione della vitamina K chinone a idrochinone, ma non è l’unico enzima, né il più importante, che catalizza questo passaggio.
Gli anticoagulanti orali antagonisti della vitamina K (VHAs), come il warfarin, agiscono inibendo l’enzima VKOR da cui dipende la disponibilità di vitamina K nella forma attiva (KH2), necessaria per la reazione di carbossilazione dell’acido glutammico e l’attivazione dei fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti. Gli anticoagulanti VKAs non bloccano completamente l’enzima VKOR, per cui riducono, ma non bloccano completamente il ciclo della vitamina K epossido appena descritto (Yan et al., 2023). In presenza di warfarin (o analoghi) la somministrazione esogena di vitamina K aggira il blocco indotto dell’enzima VKOR, fornendo nuova vitamina da convertire nella forma attiva e quindi ripristinando la disponibilità di cofattore, vitamina K idrochinone, per l’enzima gamma-glutamil carbossilasi.
Oltre al ruolo ben noto della vitamina K nella coagulazione del sangue, è plausibile ritenere - i dati preclinici e le evidenze cliniche, se pur limitate, supportano questa ipotesi –che questa vitamina svolga funzioni biologiche, extraepatiche, prevalentemente attraverso l’attivazione delle proteine vitamina K-dipendenti (calcitonina, proteina MGP, proteina gas6, proteina S e C) che, regolando la distirbuzione del calcio, modulano diversi processi cellulari. Un altro potenziale ruolo della vitamina K, evidenziato però solo a livello preclinico e limitatamente al moscerino della frutta, si esplicherebbe a livello mitocondriale, in qualità di trasportatore di elettroni. Come già abbiamo accennato, la forma prevalente in cui la vitamina K è presente nei tessuti extraepatici è quella di menachinone-4 che per semplicità indicheremo come vitamina K2. Di seguito, pertanto, presentiamo il ruolo della vitamina K1 nella sindrome emorragica neonatale e una sintesi delle ricerche sulle funzioni biologiche extraepatiche della vitamina K2.
Sindrome emorragica neonatale
Nei neonati può verificarsi emorragia da deficit di vitamina K, soprattutti nei nati prematuri, riconducibile ad un passaggio insufficiente di vitamina K dalla madre al feto durante la gravidanza, al basso contenuto di vitamina K nel latte materno e al fatto che alla nascita il neonato presenta una flora batterica non sviluppata. L’emorragia da carenza di vitamina K (che un tempo era indicata come sindrome emorragica del neonato) è dovuta ad un deficit transitorio, ma severo, delle proteine della coagulazione che richiedono la vitamina K per essere attivate: protrombina e i fattori della coagulazione VII, IX e X. Il quadro clinico riconosce diversi livelli di gravità, da lievi sanguinamenti delle mucose, ad emorragie intestinali fino, nelle situazioni più severe, ma più rare, ad emorragie cerebrali.
La sindrome emorragica neonatale si distingue in tre forme: precoce, entro le 24 ore dalla nascita; classica, nella prima settimana di vita del bambino, tra il secondo e settimo giorno; tardiva, dopo la prima settimana di vita fino a 6 mesi, con picco d’incidenza tra la seconda e l’ottava settimana di vita. Sono a rischio soprattutto i neonati prematuri e i neonati allattati esclusivamente al seno (normalmente povero di vitamina K) che non hanno ricevuto la profilassi con vitamina K alla nascita, rispetto ai neonati con allattamento misto o allattati con latte formulato arricchito in vitamina K.
La sindrome emorragica neonatale risponde alla supplementazione di vitamina K e va distinta dall’emorragia causata da deficit congenito di fattori della coagulazione, che non risponde invece alla somministrazione di vitamina K esogena. L’incidenza di sindrome emorragica classica da deficit di vitamina K, in assenza di profilassi, è del 2% (Kliegman et al., 2023).
Nei neonati le cui mamme sono in terapia cronica con farmaci che interferiscono con l’assorbimento o l’attività della vitamina K (warfarin, fenitoina, fenobarbitale, rifampicina, isoniazide, farmaci sequestranti i sali biliari) si può verificare nelle prime 24 ore dalla nascita un’emorragia acuta da carenza di vitamina K (l’incidenza è molto rara). Per evitare questo rischio, è opportuno misurare il tempo di protrombina del feto dal sangue del cordone ombelicale e somministrare nel neonato appena nato la vitamina K1 (1-2 mg) per endovena. Se il tempo di protrombina tende a rimanere molto basso o si manifesta emorragia, la terapia prevede la somministrazione di plasma fresco (10-15 ml/kg) (Kliegman et al., 2023).
Il neonato può andare incontro ad un’emorragia, anche grave, da deficit di vitamina K ad esordio tardivo, ovvero dopo le prime due settimane di vita (1-6 mesi). In questo caso il problema dipende da un malassorbimento intestinale della vitamina che può essere associato a malattie quali la fibrosi cistica, l’epatite neonatale o a malformazione dei dotti biliari (atresia biliare) (Kliegman et al., 2023).
Per ridurre il rischio di emorragia neonatale da deficit di vitamina K, le linee guida raccomandano la profilassi con vitamina K (1 mg) per via intramuscolare. In caso di emorragia conclamata la via di somministrazione raccomandata è quella endovenosa (infusione lenta di 1-5 mg). In regime di profilassi, in alternativa alla somministrazione intramuscolare si può somministrare la vitamina K per via orale, in dosi ripetute (dose di 1-2 mg alla nascita, alle dimissioni ospedaliere e ancora dopo 3-4 settimane). La somministrazione orale secondo lo schema che prevede tre somministrazioni è però meno efficace rispetto alla somministrazione intramuscolare alla nascita nella prevenzione dell’emoraggia da carenza di vitamina K a insorgenza tardiva (Kliegman et al., 2023). In uno studio retrospettivo relativo a più di 500mila neonati allattati al seno, la somministrazione settimanale prolungata di vitamina K, dalla nascita all’età di 3 mesi (1a dose, alla nascita: 2 mg; 2a dose e successive: 1 mg), è risultata efficace nel prevenire emorragie da deficit di vitamina K (nessuna emorragia riportata) (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2019).
Vitamina K2 e metabolismo osseo
L’osso è formato da una componente cellulare e da una matrice extracellulare. Quest’ultima è costituita da una parte minerale, carbonato di calcio e cristalli di idrossiapatite, e da una parte organica proteica. Tra le proteine della matrice ossea figurano oltre al collagene, anche la osteocalcina e la proteina Gla della Matrice (MGP, Matrix Gla-Protein), entrambe dipendenti dalla vitamina K per la loro attivazione. La osteocalcina (BGP, Bone-Gla-protein) è secreta da osteoblasti, odontoblasti e cellule della cartilagine ipertrofica e lega elettrostaticamente il calcio libero presente nella matrice ossea. Quasi l’80% dell’osteocalcina è immagazzinata nella matrice ossea legata al calcio, mentre circa un 20% circola nel sangue. A seconda del grado di carbossilazione l’osteocalcina può essere non carbossilata, carbossilata o sottocarbossilata e ognuna di queste forme presenta un diverso grado di affinità verso lo ione calcio. Poiché l’attivazione dell’osteocalcina, ovvero la sua carbossilazione, dipende dalla presenza di vitamina K, l’osteocalcina non carbossilata o sottocarbossilata può essere considerata un indicatore dello stato di vitamina K (Shiraki et al., 2010).
La vitamina K2 è in grado di stimolare il legame tra osteocalcina e ioni calcio favorendo la mineralizzazione del tessuto osseo (osteogenesi). Di contro, un deficit di questa vitamina potrebbe aumentare il rilascio di calcio dal tessuto osseo e nel tempo favorire una condizione di osteopenia fino all’osteoporosi (Maresz, 2015). Su questa scia si inseriscono gli studi che indagano un possibile ruolo della supplementazione di vitamina K nel trattamento dell’osteoporosi. Bisogna comunque considerare che l’apporto di vitamina K con la dieta e il suo riciclo intracellulare (chinone-idrochinone) fa sì che stati di carenza siano un evento poco frequente.
Oltre a promuovere la deposizione di calcio nel tessuto osseo, studi in vitro e in modelli animali supportano un ruolo della vitamina K anche sui processi biologici che intervengono nei processi di rimodellamento osseo. La vitamina K2 è risutata infatti regolare la proliferazione e la differenziazione degli osteoblasti, le cellule deputate alla deposizione di tessuto nuovo, e stimolare l’attività della fosfatasi alcalina, enzima che svolge un ruolo chiave nel processo di mineralizzazione del tessuto neoformato da un lato, dall’altro è risultata inibire l’apoptosi (morte programmata) degli osteoblasti e l’attività degli osteoclasti, le cellule specializzate nel riassorbimento del tessuto osseo (Yan et al., 2023).
Vitamina K2 e prevenzione della calcificazione cardiovascolare
La quasi totalità (99%) del calcio presente nell’organismo è depositato nelle ossa, una minima parte (1%) è presente nel sangue e in altri tessuti. Bassi livelli di vitamina K2 sono stati associati ad una attivazione insufficiente di due proteine vitamina K-dipendenti che intervengono con funzione inibitoria nel processo di calcificazione vascolare: una l’abbiamo già incontrata ed è la proteina Gla di Matrice (MGP), l’altra è la proteina Gas6 (Maresz. 2015; Lijnen et al., 2011).
La calcificazione vascolare è un processo patologico in cui i vasi perdono elasticità per la deposizione di calcio nella parete vasale. Non si tratta di un accumulo “passivo” di sali di calcio e fosfato, ma di un processo simile a quello di mineralizzazione del tessuto osseo vero e proprio. Si osserva infatti una trasformazione delle cellule muscolari lisce vascolari in senso osteoblastico. E’ come se si formasse del tessuto osseo nella parete dei vasi.
La calcificazione vascolare è fattore di rischio per malattia cardiovascolare (ipertensione, aterosclerosi, infarto miocardico, ictus). La calcificazione delle arterie, ad esempio, si riscontra in condizione di forte aterogenicità come nel diabete, in condizione di stress ossidativo e di malattia renale cronica (Roumeliotis et al., 2019). La calcificazione vascolare è un processo anche legato all’invecchiamento: il 96% dei casi di calcificazione aortica o coronarica si osserva nelle persone con più di 70 anni (Lahtinen et al., 2015).
La proteina MGP è un inibitore chiave del processo di calcificazione dei vasi. E’ secreta dalle cellule che producono la cartilagine (condrociti) e dalle cellule muscolari lisce vascolari. Carbossilata e fosforilata, la proteina MGP si lega ai cristalli di idrossiapatite - il sale di fosfato di calcio presente anche nelle ossa - depositati nella parete dei vasi e ne impedisce l’aggregazione e la successiva calcificazione (Goiko et al., 2013). A seconda del grado di carbossilazione e fosforilazione, la proteina MGP può essere carbossilata e fosforilata (cMGP, forma attiva), defosforilata e non carbossilata (dp-ucMGP, forma inattiva), defosforilata ma carbossilata (dp-cGMP), fosforilata e non carbossilata (ucMGP). La forma inattiva di GMP, cioè dp-ucGMP, correla indipendentemente con la calcificazione vascolare e l’elasticità delle arterie, misurata tramite l’onda di pressione carotide/aorta, suggerendone un potenziale utilizzo come biomarcatore di rischio cardiovascolare (Yan et al., 2023). In pazienti ipertesi la concentrazione di MGP non carbossilata è risultata correlare positivamente con alti livelli di osteocalcina (indicativa di bassi livelli di vitamina K) e con il grado di calcificazione arteriosa (Rennenberg et al., 2010). MGP è in grado anche di inibire l’apoptosi delle cellule muscolari lisce vascolari e di stimolare particolari cellule del sistema immunitario (macrofagi) ad eliminare i residui derivanti dal processo di apoptosi. L’apoptosi delle cellule muscolari lisce vascolari sembra promuovere il processo di calcificazione vascolare (Li et al., 2008; El Asmar et al., 2014; Roumeliotis et al., 2019).
La vitamina K2 interviene nel processo di calcificazione vascolare anche attraverso la proteina Gas6 (proteina del gene 6 specifico per l’arresto della crescita), rilasciata dagli osteoblasti e dai fibroblasti quiescienti. Questa proteina è largamente espressa in moltissime cellule, incluse le cellule muscolari lisce vascolari. Per poter interagire con il proprio recettore la proteina Gas6 deve essere attivata tramite carbossilazione vitamina K-dipendente. Il complesso Gas6-recettore regola la sopravvivenza cellulare, previene l’apoptosi e la differenziazione delle cellule endoteliali e muscolari lisce vasali in senso osteoblastico (Lijnen et al., 2011). Di fatto Gas6, come già visto per la proteina MGP, sopprime la calcificazione vascolare inibendo l’apoptosi delle cellule muscolari lisce vasali.
Sebbene la vitamina K giochi un ruolo strategico per l’attivazione delle proteine MGP e Gas6, la rilevanza clinica di un’eventuale supplementazione di vitamina K2 nell’inibire la calcificazione vascolare, mediata dalla disponibilità di MGP carbossilata (forma attiva della proteina), è oggetto di ricerca e discussione perché le evidenze disponibili in ambito clinico sono limitate.
Uno studio condotto in Olanda, che ha arruolato partecipanti di entrambi i sessi, ha evidenziato una riduzione del rischio di calcificazione aortica e malattia coronarica stratificato a seconda dell’assunzione di vitamina K2 (riduzione del rischio pari al 27% e al 57% nei partecipanti con assunzione di vitamina K2 rispettivamente pari a 21,6-32,7 mcg/die o maggiore di 32,7 mcg/die rispetto ai partecipanti con assunzione di vitamina più basso, inferiore a 21,6 mcg/die) (Geleijnse et al., 2004).
In uno studio clinico randomizzato, in doppio cieco, condotto in pazienti di entrambi i sessi e di età compresa tra 60 e 80 anni, sono stati confrontati due regimi dietetici multivitaminici (vitamine del gruppo B, vitamina C, vitamina E, vitamina D3, calcio) con o senza vitamina K1 (500 mcg/die) somministrati per tre anni. Lo studio non ha evidenziato differenze nella progressione della calcificazione coronarica tra i due gruppi. Nel sottogruppo di pazienti con aderenza alla supplementazione uguale o superiore all’85%, è stato però osservato un minor grado di progressione della calcificazione vasale. Nei pazienti con preesistente calcificazione, la supplementazione con vitamina K1 è stata associata ad una riduzione della progressione del 6% rispetto al gruppo di controllo (Shea et al., 2009).
Due studi clinici hanno valutato l’apporto di vitamina K2 in donne in postmenopausa con calcificazione vascolare. Nel primo studio sono state somministrate sia vitamina K1 che vitamina K2 (menachinoni 4-10), ma solo per la vitamina K2 è stata riscontrata una correlazione inversa tra apporto dietetico e calcificazione coronarica. Secondo gli autori quanto osservato è in linea con la diversa distribuzione delle vitamine K1 e K2, che vede la prima distribuirsi preferenzialmente a livello epatico (Beulens et al., 2009). Concordano con gli esiti del primo studio, anche i risultati del secondo studio clinico in cui la supplementazione con menachinone-7 è stata associata ad una riduzione delle velocità dell’onda di pressione (onda di polso) aortica, soprattutto nelle donne che presentavano una maggiore rigidità arteriosa al basale. L’onda di pressione aortica è il test di riferimento per valutare la rigidità della parete vasale: quanto più le arterie sono rigide, tanto maggiore è la velocità dell’onda di pressione (Knapen et al., 2015).
Osservazioni analoghe valgono anche per la calcificazione delle valvole cardiache. Da un lato la somministrazione cronica con anticoagulanti antagonisti della vitamina K oltre a promuovere la calcificazione a carico delle coronarie agisce anche sulle valvole cardiache, dall’altro elevati livelli plasmatici di MGP non attivata (defosforilata e non carbossilata) sono risultati correlare con la calcificazione valvolare aortica (El Asmar et al., 2014; Brandenburg et al., 2017). Come già proposto per la calcificazione vascolare, anche per la calcificazione delle valvole cardiache i ricercatori hanno ipotizzato un possibile ruolo per la vitamina K. Sebbene in un modello animale l’integrazione della dieta con menachinone-4 non ha sortito gli effetti sperati (nessuna variazione morfologica della valcola aortica) (Weisell et al., 2021), in pazienti con calcificazione aortica di vario grado (99 pazienti provenienti da un solo centro) la supplementazione con vitamina K1 (2 mg/die) per un anno è stata associata ad un minor tasso di progressione del processo di calcificazione (esito clinico primario Aortic Valve Calcification (AVC) Score: 10% vs 20% rispettivamente con o senza vitamina K1) (Brandenburg et al., 2017).
Vitamina K2 e osteoartrosi
Nell’osteoartrite, la più comune malattia degenerativa articolare, si osserva perdita di cartilagine per calcificazione. In corrispondenza delle calcificazioni è stato osservato un accumulo di proteina ricca di Gla (GRP) sotto carbossilata e di proteina MGP non carbossilata (Rafael et al., 2014; Wallin et al., 2010). GRP, come MGP, è una proteina vitamina K-dipendente, distribuita principalmente nell’osso, nella cartilagine, nella pelle e nei vasi; è caratterizzata da un numero elevato di residui di acido gamma-carbossiglutammico (Gla) che suggeriscono un’elevata affinità per lo ione calcio. Questi riscontri hanno portato ad ipotizzare che una carbossilazione insufficiente di GRP e MGP possa gocare un ruolo causale nello sviluppo dell’osteoartrite (nella forma carbossilata GRP e MGP agiscono come inibitori della calcificazione dei tessuti molli) e conseguentemente che ci possa essere una relazione tra osteoartrite e deficit di vitamina K (Misra et al., 2013).
I ricercatori attivi in questo ambito ipotizzano che GRP possa inibire la calcificazione del tessuto cartilagineo in modo simile a MGP, cioè modulando negativamente (downregulation) la differenziazione delle cellule muscolari lisce vascolari in cellule osteoblasti-simili, la differenziazione e maturazione degli osteoblasti, l’attività della fosfatasi alcalina e l’espressione di geni osteogenici (Cavaco et al., 2016). Inoltre, la proteina morfogenica dell’osso-2 (BMP-2), coinvolta nella neoformazione di tessuto osseo e cartilagine e che stimola la differenziazione delle cellule muscolari lisce vascolari in senso osteoblastico, è risultata inibire l’espressione di GRP (Wen et al., 2018).
L’osteoartrite si accompagna ad infiammazione tissutale. Tra le sostanze proinfiammatorie troviamo le metalloproteasi (MMPs), enzimi che scindono le proteine. La metalloproteasi-2 idrolizza il collagene, principale componente della cartilagine, partecipando al danno articolare. La vitamina K2 è risultata inibire l’espressione della MMP-2 e sopprimere la calcificazione indotta dalla vitamina D2 nei tessuti molli in modelli animali (Chen et al., 2015; Seyama et al., 1996).
Vitamina K2 e osteoporosi
L’osteoporosi è una condizione patologica caratterizzata da un aumento della fragilità del tessuto osseo che espone ad un maggior rischio di frattura. Variazioni della concentrazione di osteocalcina nel sangue sono indicativi di patologie del tessuto osseo, in particolare l’osteoporosi è associata ad un aumento dei livelli plasmatici di osteocalcina (abbiamo incontrato questa proteina quando abbiamo parlato di vitamina K e metabolismo osseo). Poiché l’attivazione dell’osteocalcina richiede la presenza della vitamina K, sono stati condotti studi clinici per verificare se la disponibilità di vitamina K possa influenzare la mineralizzazione ossea. Alcuni studi suggeriscano una associazione tra livelli elevati di osteocalcina non carbossilata e bassa densità minerale ossea, altri, ma non tutti, una correlazione tra l’assunzione di vitamina K2 (MK4, MK7) e il contenuto minerale osseo (BMC), la densità minerale ossea (BMD) e/o l’incidenza di frattura vertebrale o all’anca (Rønn et al., 2021; Mott et al., 2019; Huang et al., 2015; Knapen et al., 2007, 2013, 2015; Gundberg et al., 2012, Chan et al., 2012; Yaegashi et al., 2008, Rejnmark et al., 2006, Booth et al., 2000 e 2003; Feskanich et al., 1999).
Di fatto non è chiaro se la supplementazione di vitamina K possa ridurre effettivamente il rischio di osteoporosi. Una revisione sistematica e meta-analisi che ha preso in considerazione 13 studi clinici associa la supplementazione con vitamina K1 o K2 a una minor perdita di tessuto osseo e solo per la supplementazione con vitamina K2 (MK4) evidenzia un effetto significativo di riduzione dell’incidenza di frattura ad anca, vertebre e frattura non vertebrale. I sette studi che riportavano dati di frattura ossea sono stati condotti in Giappone ed hanno utilizzato MK4 per la supplementazione di vitamina K alla dose di 15 mg/die (uno studio) oppure 45 mg/die (6 studi) (Cockayne et al., 2006). Un’altra revisione estesa a 19 studi clinici randomizzati verso placebo conferma l’associazione tra vitamina K2, aumento della densità minerale ossea vertebrale e riduzione del rischio di frattura in donne in menopausa con osteoporosi (Huang et al., 2015). In un’altra meta-analisi, in donne in postmenopausa o con osteoporosi, la vitamina K2 è stata associata ad una minor incidenza di frattura clinica, ma non c’è evidenza che la supplementazione possa influenzare la densità minerale ossea o il rischio di frattura vertebrale (Mott et al., 2019).
Uno studio clinico ha riportato effetti positivi sulla mineralizzazione delle vertebre corrispondenti al basso torace in donne in postmenopausa anche con il menachinone 7 (MK7, 180 mcg/die per tre anni) (Knapen et al., 2013). In uno studio condotto in donne nordamericane in postmenopausa (381) è stata sperimentata la supplementazione per un anno con vitamina K1 (1 mg/die), con MK4 (45 mg/die) o placebo. Tutte le partecipanti hanno ricevuto calcio (630 mg/die) e vitamina D3 (400 UI). Al termine dello studio, le pazienti trattate con vitamina K (K1 o MK4) presentavano valori di osteocalcina non carbossilata inferiori rispetto al gruppo placebo, ma questo non si è tradotto in differenze nella densità minerale ossea delle vertebre lombari o della testa del femore (Binkley et al., 2009).
In diversi studi in cui sono stati evidenziati benefici clinici, la vitamina K2 è stata somministrata in associazione a vitamina D e calcio. E’ probabile che vitamina D e calcio abbiano avuto un peso preponderante nei risultati ottenuti (Rønn et al., 2021; Maria et al., 2017; Kanellakis et al., 2017).
Gli esiti non univoci sulla relazione tra vitamina K e salute ossea hanno determinato scelte differenti da parte delle autorità regolatorie. Mentre in Giappone la vitamina MK4 (45 mg/die) è utilizzata nel trattamento dell’osteoporosi e l’Autorità europea per la sicurezza degli alimenti (EFSA, European Food Safety Authority) ha permesso l’utilizzo di una dicitura prestabilita (claim) sugli effetti positivi della vitamina K sulla salute delle ossa, l’Autorità statunitense non ha concesso analogo permesso (National Institutes of Health – NIH, 2021).
Vitamina K2 e epatoprotezione
La vitamina K2 ha mostrato attività di epatoprotezione in modelli animali sottoposti a resezione epatica evidenziata dall’aumento indotto dei livelli di albumina sierica e dalla riduzione di quelli delle transaminasi epatiche (indicativi di una normalizzazione della funzionalità epatica) (Zhang et al., 2013). In una paziente (66 anni) con cirrosi epatica da epatite C, la combinazione di vitamina K2 e un ACE-inibitore è stata associata a scomparsa del nodulo displastico, rilevato tramite esami di imaging, e a normalizzazione della alfafetoproteina (AFP) e della sua isofroma AFP-L3, marker tumorali per epatocarcinoma (Yoshiji et al., 2007).
In vitro e in vivo, la vitamina K2 ha dimostrato attività citotossica verso cellule tumorali di epatocarcinoma, da un lato inibendo le vie di segnalazione che stimolano la migrazione delle cellule tumorali e bloccando la loro proliferazione, dall’altro stimolando i processi di apoptosi (morte programmata) delle cellule neoplastiche (Yan et al., 2023).
Vitamina K2 e funzione mitocondriale
I mitocondri, organuli presenti nelle cellule del nostro organismo, sono la sede di regolazione del metabolismo cellulare e della produzione di ATP (adenosina trifosfato), molecola ad alta energia che la cellula utilizza per il proprio funzionamento. Per la sintesi di ATP il mitocondrio utilizza l’ubichinone o coenzima Q10. Questa molecola è strutturalmente simile alla vitamina K perché è formata da un anello naftochinonico che porta sul carbonio in posizione 3 una catena laterale di 10 unità di isoprene.
La somiglianza tra coenzima Q10 e vitamina K ha suggerito l’ipotesi che la vitamina K possa essere un trattamento potenzialmente utile in condizioni di ipossia cellulare come si verifica, ad esempio, in caso di ischemia (ictus, infarto miocardico). Questa ipotesi trova supporto anche considerando che i menachinoni, il gruppo di sostanze che costituiscono la vitamina K2, nella cellula batterica svolgono un ruolo analogo a quello del coenzima Q10 nel mitocondrio, ovvero funzionano come trasportatori di elettroni nella respirazione cellulare (Yan et al., 2023). La ricerca in questo ambito è ancora in fase preclinica. Utilizzando come modello il moscerino della frutta (Drosophila melanogaster), la vitamina K2 ha funzionato da trasportatore di elettroni colmando il deficit funzionale dei mitocondri, indotto dalla mancanza di una proteina essenziale, Pink1 (Vos et al., 2012). Questa proteina normalmente interviene quando il mitocondrio non funziona regolarmente; mutazioni a carico di Pink1 sono state correlate a forme di malattia di parkinson ad esordio precoce. Quando però i ricercatori hanno utilizzato linee cellulari umane deficitarie del coenzima Q10 o cellule di lievito con analogo deficit, la vitamina K2 non è riuscita a ripristinare la catena di trasporto di elettroni della respirazione cellulare né a sintetizzare ATP (Cerqua et al., 2019). Il ruolo della vitamina K2 di trasportatore di elettroni, pertanto, potrebbe essere specifico per la Drosophila e non generalizzabile ad altri tipi di cellule, come quella umana.
Vitamina K e neuroprotezione
Evidenze sperimentali supportano l’ipotesi che la supplementazione con vitamina K possa rappresentare una strategia di neuroprotezione nel mantenimento dell’integrità delle fibre nervose e del normale funzionamento del cervello in modelli animali e nell’uomo. In modelli animali, una dieta carente in vitamina K1 è stata associata con una minor capacità di portare a termine compiti prestabiliti e/o perdita di funzionalità motoria. In studi clinici che hanno preso in considerazione pazienti anziani, un maggior introito di vitamina K1 è risultato correlare con prestazioni migliori in termini di funzione cognitiva (valutata tramite il Mini Mental State Examination, MMSE), comportamento (valutato con il test FBR, Frontotempotal Behavioral rating Score) e memoria (Chonet et al., 2015; Soutif-Veillon et al., 2016).
La vitamina K è un fattore necessario per la sintesi e il metabolismo degli sfingolipidi, molecole lipidiche presenti in concentrazione elevata nelle membrane dei neuroni e delle cellule gliali (cellule di supporto ai neuroni). Gli sfingolipidi sono coinvolti nella trasmissione dei segnali; nella proliferazione, differenziazione e sopravvivenza delle cellule nervose; nell’interazione sinaptica e tra neuroni e cellule gliali; nella stabilità della guaina mielina (Olsen, Færgeman, 2017). Alterazioni nella loro composizione sono implicati nella degenerazione e infiammazione del tessuto nervoso (Alisi et al., 2019).
La vitamina K interviene anche attraverso la proteina Gas6 che abbiamo già incontrato quando abbiamo parlato della calcificazione vascolare. Gas6 è ampiamente distribuita nel sistema nervoso centrale e periferico e poichè questa proteina vitamina K-dipendente prende parte in processi volti a mantenere uno stato di equilibrio (omeostasi) del tessuto nervoso, è stato ipotizzato, e osservato in modelli cellulari, che la vitamina K2, attraverso la regolazione di Gas6, possa svolgere un ruolo di protezione verso il tessuto nervoso, come ad esempio contrastando la formazione si specie radicaliche dell’ossigeno e la citotossicità della proteina beta amiloide che induce l’apoptosi delle cellule nervose (gli ammassi di proteina beta amiloide sono un reperto caratteristico della malattia di alzheimer) (Huang et al., 2021; Hadipour et al., 2020). Altra proteina vitamina K-dipendente che esplica, in modelli cellulari o animali, un ruolo di neuroprotezione in condizioni di ipossia/ischemia, fattore di rischio per demenza vascolare, è la proteina S (Ferland et al., 2012).
Vitamina K e covid-19
Poiché la vitamina K interviene come cofattore nell’attivazione di alcuni fattori della coagulazione del sangue, sono stati condotti degli approfondimenti per verificare se in qualche modo questa vitamina possa giocare un ruolo di mediazione nei processi patologici di infiammazione polmonare e nelle complicanze tromboemboliche associate a covid-19. L’attivazione infatti delle proteine anticoagulanti S e C vitamina K-dipendenti agirebbe sulla formazione di microtrombi, causa degli eventi cardiovascolari associati all’infezione da SARS-CoV2 (ictus, infarto, trombosi, coagulopatia intravascolare), mentre l’attivazione della proteina MGP controbilancerebbe la fibrosi polmonare e l’aumento di citochine pro-infiammatorie responsabili della sindrome da distress respiratorio acuto (Kudelko et al., 2021).
Alcuni dati clinici in pazienti con covid-19 evidenziano una correlazione tra la gravità della malattia e il deficit di vitamina K e vitamina D, utilizzando come biomarcatore i livelli di proteina MGP defosforilata e non carbossilata (dp-ucMGP); lo studio di riferimento però non affronta il ruolo di un’eventuale supplementazione delle due vitamine in termini di benefici clinici (Desai et al., 2021). In un altro sudio clinico, elevati livelli di dp-ucMGP sono risultati correlare con la mortalità dei pazienti (Linneberg et al., 2021). Sulla base di queste osservazioni la polmonite da covid-19 potrebbe in un qualche modo indurre una deplezione extraepatica di vitamina K che potrebbe accelerare la degradazione delle fibre elastiche polmonari e agire in senso pro-trombotico, come conseguenza di una minor attivazione delle proteine MGP, S e C (Dofferhoff et al., 2021).