Il pioglitazone è un farmaco utilizzato per il trattamento del diabete di tipo 2, appartenente alla classe dei glitazoni (anche noti come tiazolidindioni o tiazolidinedioni), farmaci che aumentano la sensibilità all’insulina dei tessuti.
In caso di insulino-resistenza, il trattamento con piogltazone riduce la produzione di glucosio epatico e aumenta la disponibilità di glucosio periferico. Migliorando la sensibilità all’insulina il pioglitazone facilita l’assorbimento e l’utilizzo del glucosio da parte dei tessuti con conseguente riduzione della glicemia, dell’insulinemia e dei valori di emoglobina glicata (HbA1c).
Ma qual è il meccanismo d’azione del pioglitazone? Il farmaco attiva il recettore del nucleo cellulare PPARγ (recettore gamma attivato di proliferazione dei perossisomi) che provoca un aumento della sensibilità all’insulina di fegato, muscoli e tessuto adiposo. Il recettore PPARγ, particolarmente espresso nel tessuto adiposo, regola l’espressione di più di 100 geni diversi. La sua attivazione, oltre alla riduzione della resistenza all’insulina, produce una serie di effetti tra cui: differenziazione degli adipociti, riduzione della concentrazione di interleuchina 6 (IL-6), inibizione della formazione di nuovi vasi (angiogenesi) e diminuzione della concentrazione plasmatica di leptina, ormone prodotto dal tessuto adiposo che interviene nella regolazione delle riserve energetiche (Ida et al., 2018).
Poiché il recettore PPARγ è abbondante anche nelle cellule dei tubuli di raccolta renali (dotti collettori), la sua attivazione da parte del pioglitazone determina ritenzione di sodio e acqua con conseguente aumento di peso e rischio di edema agli arti inferiori, soprattutto alle caviglie (edemi declivi) (Panchapakesan et al., 2009). Nei pazienti con disfunzione cardiaca, la ritenzione idrica può far precipitare i sintomi di scompenso cardiaco (Mannucci et al., 2008). Per questo motivo il farmaco è controindicato nei pazienti con insufficienza cardiaca.
Il pioglitazone inoltre sembra proteggere da eventi cardiovascolari stabilizzando la placca aterosclerotica: pazienti trattati con il farmaco infatti hanno registrato una diminuzione media di trigliceridi e un aumento medio di colesterolo HDL (Betteridge, 2007).
Uno degli effetti collaterali negativi del pioglitazone è la tendenza all’aumento di peso corporeo in parte causato dalla ritenzione idrica, in parte dall’aumento della massa adiposa che si osserva dopo trattamento prolungato (Chilcot et al., 2001). Il pioglitazone però determina una redistribuzione generale dell’adipe, incrementando il tessuto adiposo sottocutaneo, senza aumentare quello viscerale, noto fattore di rischio cardiovascolare e metabolico, che in alcuni casi è risultato addirittura ridotto (Miyazaki et al., 2002).
Steatosi epatica non alcolica (NAFLD)
La steatosi epatica, definita come un accumulo di grasso superiore al 5-10% del peso del fegato, è la causa più comune (circa 25%) di malattia cronica del fegato in Occidente e in Asia. La steatosi epatica è causata da uno squilibrio del metabolismo dei grassi e da una de-regolamentazione dell’autofagia cellulare che porta alla disgregazione (fino al 70%) delle proteine intracellulari del fegato. L’autofagia è un processo di degradazione dei componenti intracellulari in appositi organuli, i lisosomi, che collabora al mantenimento dell'omeostasi cellulare.
Il pioglitazone, che agisce come agonista del PPARγ, ha dimostrato in alcuni studi di possedere una funzione protettiva verso il fegato attraverso un meccanismo che antagonizza l’accumulo di grasso epatico. In particolare, gli effetti epatoprotettivi plausibili del pioglitazone includono:
Tuttavia, il meccanismo molecolare con cui il pioglitazone antagonizza la steatosi epatica non è ancora chiaro, i ricercatori sostengono che possa essere dovuto al potenziamento o all'attivazione della lipolisi citosolica e dell'autofagia.
In uno studio preclinico che utilizza un modello murino alimentato con una dieta ricca di grassi per ricreare una condizione simile alla statosi epatica non alcolica umana, il pioglitazone sembrerebbe migliorare la resistenza all'insulina e la steatosi epatica indotta dalla dieta. Infatti, la co-somministrazione di pioglitazone insieme alla dieta ha ridotto notevolmente il contenuto di lipidi (trigliceridi) nel fegato e la concentrazione sierica di insulina rispetto al gruppo di animali trattato con la sola dieta ad alto contenuto di grassi. E’ proprio tramite l’attivazione dei recettori PPARαlfa e PPARγ che il pioglitazone sembra aumentare l’espressione dei geni della lipolisi citosolica, dell’autofagia e della β-ossidazione. I recettori attivati dai proliferatori dei perossisomi (PPAR) sono fattori di trascrizione che agiscono come attivatori nel regolare la trascrizione dei geni bersaglio. La deprivazione dei recettori PPARalfa/PPARγ nelle cellule epatiche di topo ha infatti ridotto in modo significativo e proporzionale l’espressione delle proteine connesse alla lipolisi cellulare, alla beta ossidazione e all’autofagia indotte dal pioglitazone. Questi dati, quindi, supporterebbero il ruolo positivo del pioglitazone nella steatosi epatica non alcolica (Hsiao et al., 2017).
In uno studio clinico randomizzato e controllato verso placebo, condotto in pazienti con steatoepatite non alcolica (NASH) e prediabete o diabete di tipo 2, il pioglitazone ha ridotto la steatosi epatica nel 58% dei partecipanti; poco più della metà dei partecipanti, 51%, ha ottenuto la risoluzione della malattia. La steatoepatite non alcolica è un tipo di NAFLD, caratterizzata da infiammazione e danni alle cellule del fegato, oltre alla presenza eccessiva di grasso epatico. Nei pazienti trattati con successo, il trattamento con pioglitazone ha determinato miglioramento del quadro fibrotico, diminuzione significativa dei trigliceridi epatici e aumento della sensibilità all’insulina del fegato e del tessuto adiposo (Cusi et al., 2016).