Quali farmaci per il Melanoma?
La terapia del melanoma dipende dalle caratteristiche del tumore. In caso di lesione primaria operabile si procede con l’intervento chirurgico seguito, se il tumore presenta rischio di recidiva, da terapia farmacologica (terapia adiuvante). Se il melanoma è diagnosticato in fase avanzata (stadio III non operabile o metastatico), le opzioni disponibili possono essere sistemiche, quali trattamento chirurgico di salvataggio, immunoterapia, terapia a bersaglio molecolare, chemioterapia, oppure locali (locoregionali) come la radioterapia, la perfusione isolata d’arto e l’elettrochemioterapia.
Terapia chirurgica
Per tumori superficiali (spessore fino ad 1 mm) e localizzati (stadio clinico 0 e 1) la sola asportazione chirurgica è sufficiente, nella maggior parte dei casi, ad eradicare completamente il tumore.
L’ampiezza dell’escissione chirurgica dipende dalle caratteristiche del tumore e dallo spessore della lesione. Oltre al tessuto tumorale si asporta anche parte di tessuto intatto per essere sicuri di eliminare completamente il melanoma. La porzione di tessuto sano da eliminare dipende dallo spessore della lesione. In generale sono raccomandati 5 mm in caso di melanoma superficiale localizzato (melanoma in situ); 1 cm in caso di melanoma fino a 2 mm di spessore; 2 cm in caso di melanoma con spessore superiore a 2 mm. Se l’intervento chirurgico ha implicazioni estetico-funzionali importanti è possibile ridurre la parte di tessuto sano da eliminare, salvo procedere poi con un monitoraggio post-chirurgico molto stretto (Associazione Italiana Oncologica Medica – AIOM, 2017).
Per melanomi con spessore superiore a 1 mm si effettua la ricerca del linfonodo sentinella per verificare un eventuale coinvolgimento linfonodale del melanoma. La via linfatica è la via preferenziale (50% dei casi) di diffusione del melanoma e trattandosi di un tumore della pelle i vasi linfatici coinvolti nella migrazione delle cellule tumorali sono quelli presenti nel derma. La diffusione per via ematica si osserva in un quarto dei melanomi che metastatizzano, soprattutto nei casi di melanoma spesso (> 4 mm). Il linfonodo sentinella è il primo linfonodo intercettato dalle cellule tumorali in migrazione e dipende dalla sede della lesione primaria (in genere è quello più vicino alla lesione primitiva del tumore). Il coinvolgimento di questo linfonodo indica che le cellule tumorali sono in grado di migrare e diffondere verso altri siti. Per melanomi con spessore inferiore a 1 mm la diffusione di cellule tumorali ai linfonodi è un evento molto raro, mentre per tumori di spessore compreso fra 1,5 e 4 mm la probabilità di trovare un linfonodo positivo arriva al 25% e aumenta al 60% per tumori con spessore superiore a 4 mm. La ricerca del linfonodo sentinella è sempre indicata per melanomi di spessore superiore a 1 mm. Per i melanomi più sottili, tale ricerca è indicata solo se è presente mitosi cellulare, indicativa di aggressività biologica della malattia. Per individuare il linfonodo sentinella si usa la linfoscintigrafia, spesso confermata dal test al blu di metilene. Il linfonodo sentinella è sottoposto a biopsia e in caso di positività (20% dei casi) si può procedere con la sola rimozione del linfonodo sentinella oppure con la rimozione di tutti i linfonodi di quella sede specifica (dissezione linfonodale completa). (Associazione Italiana Oncologica Medica – AIOM, 2017).
Gli interventi chirurgici che comportano l’asportazione di una porzione significativa di cute e sottocute, soprattutto quando si esegue una dissezione linfonodale completa, possono dare complicanze post operatorie a breve e a lungo termine. La rimozione del sottocute viene eseguita per eliminare eventuali micrometastasi. Le complicanze precoci comprendono necrosi dei lembi della ferita (per insufficienza vascolare), infezione della ferita e linfocele (raccolta di liquido linfatico sotto la cicatrice del linfonodo sentinella). Le complicanze tardive comprendono: cheloidi (iperproliferazione di tessuto cicatriziale), limitazioni funzionali e linfedema (ristagno di linfa in un distretto corporeo).
Terapia adiuvante
La terapia adiuvante del melanoma è finalizzata a ridurre il rischio di recidiva del tumore e a migliorarne l’esito (prognosi) dopo trattamento chirurgico ed è pertanto indicata quando il tumore ha un elevato rischio di recidiva. Attualmente in Italia la terapia adiuvante approvata è a base di interferone ed è indicata in caso di melanomi in stadio clinico II e III (indicativamente, spessore > 1 mm e coinvolgimento di linfonodi regionali, ma assenza di metastasi). L’interferone è una proteina prodotta dall’organismo per difendersi dalle infezioni. L’interferone agisce indirettamente sul tumore stimolando le difese del sistema immunitario. La dose di interferone e la durata della terapia (12-18 mesi) dipendono dalle caratteristiche del tumore. I dati di letteratura indicano per l’interferone una riduzione del rischio di recidiva del 18% e un aumento della sopravvivenza globale dell’11%.
Negli USA, l’Agenzia regolatoria che si occupa di farmaci (Food and Drug Administration, FDA) ha autorizzato la terapia con ipilimumab in adiuvante per il melanoma in stadio III (Eggermont et al., 2015 e 2016); in Europa il farmaco non è approvato per questa indicazione. Si tratta di un anticorpo monoclonale (anticorpo monoclonale IgG1k) che come l’interferone stimola il sistema immunitario ad agire contro le cellule tumorali. Nello studio clinico di riferimento, ipilimumab ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione (esito clinico primario) (mediana: 26,1 vs 17,1 mesi rispettivamente con ipilimumab e placebo). Poco più della metà dei pazienti trattati però ha dovuto sospendere la terapia adiuvante per gli effetti collaterali e solo il 29% dei pazienti ha ricevuto il trattamento di mantenimento per un anno. L’analisi dei dati sul lungo periodo ha indicato un miglioramento significativo della sopravvivenza globale che a 5 anni è risultata pari al 65,4% con il farmaco e al 54,4% con placebo (p=0,001). Sia negli USA che in Europa ipilimumab è approvato per il trattamento del melanoma non operabile o metastatico.
Altri farmaci studiati come adiuvanti sono nivolumab (anticorpo monoclonale anti-PD-1), dabrafenib più trametinib (inibitori delle proteine BRAF e MEK, coinvolte nella proliferazione delle cellule tumorali) e vemurafenib (inibitore della proteina BRAF). Nivolumab è stato confrontato con ipilimumab in pazienti con melanoma in stadio III o IV: la sopravvivenza libera da recidiva, esito clinico primario, è risultata pari, rispettivamente, a 70,5% vs 60,8% (p<0,001) dopo 12 mesi (follow up minimo di 18 mesi). Il farmaco inoltre è risultato ridurre del 35% il rischio di recidiva rispetto a ipilimumab. L’incidenza di effetti collaterali severi (grado 3 e 4) è risultata pari al 14,4% con nivolumab e al 45,6% con ipilimumab e l’interruzione del trattamento è stato riportato, rispettivamente, nel 9,7% e nel 42,6% dei pazienti (Weber et al., 2016). La combinazione dabrafenib più trametinib è stata studiata in pazienti con melanoma in stadio III e mutazione V600E/K della proteina BRAF, mentre vemurafenib in pazienti con mutazione V600 della proteina BRAF. La mutazione V600 della proteina BRAF è una mutazione oncogenica (Long et al., 2017a; Lewis et al., 2017). Sia nivolumab che vemurafenib e la combinazione dabrafenib più trametinib non sono attualmente approvati come terapia adiuvante in Europa.
In alcuni casi selezionati di pazienti potrebbe essere valutata la radioterapia come trattamento adiuvante in pazienti con melanoma (stadio III) ed elevato rischio di ricaduta linfonodale, ma non è indicata come prassi generale (Associazione Italiana Oncologia Medica – AIOM, 2017).
Immunoterapia
L’immunoterapia è raccomandata in caso di melanoma non operabile o metastatico. Come già visto per la terapia adiuvante, l’immunoterapia sfrutta l’impiego di farmaci in grado di “risvegliare” le difese immunitarie verso le cellule tumorali. I farmaci utilizzati in questo ambito comprendono:
L’interleuchina-2 ricombinante o aldesleuchina (specialità medicinale Proleukin), approvata negli USA per il trattamento del melanoma metastatico e il tumore renale metastatico e in Italia solo per quest’ultimo, somministrata per via endovenosa ad alte dosi ha determinato risposta clinica nel 16% dei pazienti trattati (6% risposta completa, 16% risposta parziale). Nei pazienti che hanno risposto al farmaco (risposta completa) la durata mediana di risposta è stata di almeno 59 mesi (in alcuni pazienti con risposta completa la sopravvivenza libera da malattia è arrivata a 15 anni). Il farmaco è associato a gravi effetti collaterali: sindrome da iperpermeabilità capillare con rischio di edema polmonare, insufficienza renale, ipotensione, disturbi cardiovascolari (Atkins et al., 2000).
L’ipilimumab (specialità medicinale: Yervoy) è un anticorpo monoclonale in grado di legarsi ai linfociti T (tramite il recettore CTLA4) e stimolarne l’attività antitumorale. I linfociti T sono cellule del sistema immunitario coinvolte nella risposta cellulo-mediata. Negli studi clinici ipilimumab somministrato a pazienti con melanoma avanzato o metastatico è stato associato ad una sopravvivenza a 3 anni attorno al 20% (Robert et al., 2011; Schadendorf et al., 2015). Il farmaco determina effetti collaterali immuno-correlati in un’alta percentuale di pazienti. Nello studio presentato ai fini della registrazione tale percentuale è stata del 60% di cui il 15% di grado severo (3 e 4). In questo studio, l’effetto collaterale più frequente è stato la dermatite, il più grave la diarrea (da trattare immediatamente per il rischio di perforazione) (Hodi et al., 2010). Nel trattamento del melanoma avanzato, la posologia di ipilimumab prevede la somministrazione di 3 mg/kg di peso per via endovenosa ogni 3 settimane per 4 somministrazioni. In alcuni casi la terapia con ipilimumab può indurre in una fase iniziale un aumento del carico di malattia, seguita da risposta tardiva e duratura. Il farmaco è autorizzato in Italia per il trattamento del melanoma avanzato in pazienti adulti e pediatrici (età > 12 anni).
Nivolumab (specialità medicinale: Opdivo) è un anticorpo monoclonale immunoglobulina G4 (IgG4) inibitore del recettore PD-1 (programmed death-1 ovvero morte programmata 1). Il recettore PD-1 è un recettore che si trova sulla superficie cellulare dei linfociti T attivati. L’attivazione del recettore PD-1 (per interazione con specifiche molecole, i ligandi naturali, identificate con le sigle PD-L1 e PD-L2) comporta l’inibizione del linfocita T. Le cellule tumorali del melanoma possiedono sulla loro superficie la proteina PD-L1 e pertanto sono in grado di bloccare i linfociti T attivati sopprimendo la risposta immunitaria. Nivolumab legandosi al recettore PD-1 impedisce alle cellule tumorali di inattivare i linfociti T. Questo tipo di terapia se da un lato impedisce alle cellule tumorali di “aggirare” le difese messe in atto dal sistema immunitario, dall’altro espone il paziente a reazioni avverse autoimmuni (polmonite, colite, epatite, disfunzioni renali, alterazioni ormonali, patologie cutanee). Nivolumab è risultato superiore alla chemioterapia (dacarbazina) in termini di sopravvivenza globale (72,9% vs 42,1% ad 1 anno; 57,7% vs 26,7% a 2 anni), sopravvivenza libera da progressione e percentuale di risposte cliniche obiettive (40% vs 13,9%) in pazienti con melanoma avanzato in prima linea (Robert et al., 2015; Atkinson et al., 2015). Nivolumab è risultato superiore anche a ipilimumab in termini di sopravvivenza libera da progressione (mediana: 6,9 vs 2,9 mesi) e sopravvivenza globale (52% vs 34% a 3 anni) (Larkin et al., 2015; Wolchok et al., 2017). Inoltre nivolumab è risultato associato ad una minor incidenza di effetti collaterali sia verso la dacarbazina che verso l’ipilimumab.
Il farmaco è approvato in Italia per il trattamento del melanoma avanzato in pazienti adulti da solo o in combinazione con ipilimumab.
Pembrolizumab (specialità medicinale: Keytruda) è un anticorpo monoclonale che, come nivolumab, si lega al recettore PD-1 presente sui linfociti T impedendone l’interazione con i ligandi naturali PD-L1 e PD-L2. E’ approvato in Italia per il trattamento in monoterapia del melanoma avanzato in pazienti adulti. Negli studi clinici, pembrolizumab è risultato superiore a ipilimumab in termini di sopravvivenza libera da progressione e sopravvivenza globale (74,1% vs 68,4% vs 58,2% rispettivamente con pembrolizumab ogni 14 giorni oppure ogni 21 giorni oppure ipilimumab dopo 1 anno; inoltre il 98% dei pazienti, che avevano completato il trattamento di due anni, erano in vita ad un follow up mediano di 9 mesi dopo la fine della terapia). Pembrolizumab inoltre ha evidenziato una migliore tollerabilità rispetto a ipilimumab ed è stato associato ad un tasso minore di interruzione del trattamento per eventi avversi (4% vs 6,9% vs 9,4% rispettivamente con pembrolizumab ogni 14 o 21 giorni e con ipilimumab) (Robert et al., 2015a; 2017). Analoghi risultati sono stati osservati in un altro studio clinico di fase II che ha confrontato pembrolizumab con chemioterapia in pazienti con melanoma avanzato pretrattato (Ribas et al., 2015).
Le linee guida AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica) suggeriscono l’impiego dei farmaci anti PD-1 come terapia di prima linea nel trattamento del melanoma in fase avanzata quando è indicata l’immunoterapia. In alternativa ai farmaci anti PD-1 o all’ipilimumab può essere valutata anche la combinazione di nivolumab più ipilimumab (Associazione Italiana Oncologia Medica – AIOM, 2017).
Tra le terapie immunologiche per il melanoma è stato preso in considerazione l’utilizzo di anticorpi diretti contro il ligando naturale PD-L1 del recettore PD-1. In uno studio clinico di fase I, in pazienti con melanoma avanzato, un anticorpo anti PD-L1 ha indotto una risposta obiettiva nel 29% dei pazienti trattati (Brahmer et al., 2012).
Terapia a bersaglio molecolare
Per terapia a bersaglio molecolare si intende la possibilità di andare a colpire in maniera specifica proteine alterate, e pertanto mal funzionanti, prodotte da geni mutati.
Studi di sequenziamento genetico hanno portato ad individuare specifiche mutazioni associate al melanoma, in particolare a carico dei geni BRAF, RAS e NFI. Si tratta di geni che codificano per proteine che rientrano nel gruppo di proteine attivate in seguito all’interazione di recettori cellulari con fattori di crescita extracellulari e che intervengono nei processi di proliferazione, differenziamento e sopravvivenza della cellula. I processi biochimici che traducono il segnale dall’esterno (attivazione di un recettore di membrana) all’interno della cellula (risposta cellulare) sono indicati con il termine “trasduzione” del segnale cellulare e coinvolgono in genere l’attivazione “a cascata” di una serie di proteine (chinasi). In particolare, le mutazioni oncogene del gene BRAF portano ad una attivazione costitutiva (non indotta cioè da segnali extracellulari come avviene normalmente) della via di trasduzione del segnale cellulare che coinvolge le chinasi RAS, RAF, MEK e ERK.
La mutazione BRAF è un’alterazione genetica piuttosto precoce nell’evoluzione del melanoma. Circa il 40-50% dei pazienti con melanoma avanzato (non operabile o metastatico) sono positivi per mutazioni a carico di questo gene.
Altre mutazioni associate al melanoma, meno frequenti rispetto alla mutazione BRAF, interessano la proteina NRAS e c-KIT. La proteina NRAS fa parte della famiglia delle proteine RAS, la cui attivazione dà il via alla trasduzione del segnale cellulare RAS/RAF/MEK/ERK che porta a proliferazione e differenziazione cellulare. Mutazioni del gene NRAS sono state individuate in circa il 20% dei melanomi. La proteina NRAS mutata stimola la crescita delle cellule tumorali e i melanomi positivi per questa mutazione mostrano elevata aggressività. La proteina c-KIT è un recettore cellulare. Mutazioni di c-KIT sono rilevabili nei melanomi delle mucose, nel melanoma acrale (delle estremità) e nei melanomi dovuti ad esposizione cronica al sole (melanoma di tipo lentigo maligna).
La terapia a bersaglio molecolare del melanoma si basa sull’uso dei seguenti farmaci:
(registrati)
Vemurafenib (specialità medicinale: Zelboraf) è stato approvato in Italia per il trattamento del melanoma avanzato (inoperabile o metastatico) positivo alla mutazione BRAF(V600) nei pazienti adulti. La proteina BRAF mutata (la mutazione V600 è la più frequente) induce proliferazione cellulare indipendentemente dall’interazione con fattori di crescita extracellulari, si comporta cioè come se fosse sempre nello stato di attivazione. La mutazione V600 è oncogenica, non è presente nei tessuti normali. Vemurafenib è un inibitore della proteina BRAF.
Dabrafenib (specialità molecolare: Tafinlar) ha la stessa indicazione approvata per vemurafenib ma a differenza di quest’ultimo può essere utilizzato sia in monoterapia che in associazione a trametinib. Dabrafenib è un inibitore della proteina RAF. La proteina RAF è presente in diverse forme, tra cui la forma BRAF. Le mutazioni a carico di BRAF, come detto precedentemente, causano spesso uno stato di sovrattivazione della via di trasduzione del segnale RAS/RAF/MEK/ERK che induce una crescita e proliferazione cellulare in senso tumorale. Mutazioni del gene RAF sono state individuate in circa un quarto dei tumori nell’uomo.
Trametinib (specialità medicinale: Mekinist) è un inibitore della proteina MEK che fa parte della via delle proteine attivate a cascata da segnale extracellulare (via di trasduzione cellulare RAS/RAF/MEK/ERK). Nel melanoma questa via è spesso attivata da forme mutate della proteina BRAF. Trametinib inibisce la proteina MEK e blocca l’attivazione di MEK indotta dalla proteina BRAF. In Italia trametinib è indicato in pazienti adulti nel trattamento del melanoma avanzato (inoperabile o metastatico), positivo alla mutazione BRAF(V600) in monoterapia o in associazione a dabrafenib.
Cobimetinib (specialità medicinale: Cotellic) è un inibitore della proteina MEK. Inibisce pertanto la proliferazione cellulare indotta da segnale extracellulare. In Italia cobimetinib è indicato in pazienti adulti nel trattamento del melanoma avanzato con mutazione BRAF (V600) in associazione a vemurafenib.
Binimetinib è un inibitore della proteina MEK in studio per il trattamento del melanoma con mutazione BRAF e NRAS e del tumore alle ovaie. Il farmaco attualmente non è approvato né in Europa né negli USA.
Imatinib e nilotinib possiedono attività inibitoria verso la proteina c-KIT. Sono approvati come farmaci antitumorali, il primo per il trattamento di diverse forme di leucemia e per i tumori stromali gastrointestinali, il secondo per il trattamento della leucemia mieloide cronica. Nessuno dei due è approvato in Italia, né negli USA, per il trattamento del melanoma.
Negli studi clinici, i BRAF inibitori (vemurafenib e dabrafenib) hanno determinato risposta obiettiva nel 50% dei pazienti trattati e una sopravvivenza globale di 6-7 mesi. Sono inoltre associati a risposta terapeutica rapida (mediana: < 1 mese). L’aggiunta di MEK inibitori (trametinib e cobimetinib) che agiscono a valle del blocco indotto dai BRAF inibitori sulla via delle proteine attivate a cascata da segnale extracellulare, ha consentito di raggiungere benefici clinici migliori rispetto alla sola terapia con BRAF inibitori, aumentando la percentuale di risposte obiettive (68%), la sopravvivenza libera da progressione e la sopravvivenza globale (mediana di sopravvivenza > 24 mesi).
Inoltre la combinazione BRAF inibitore più MEK inibitore è stata associata in generale ad una riduzione degli effetti avversi associati alla terapia con BRAF inibitore, a discapito di un lieve aumento dell’incidenza di tossicità oculare, diarrea e ipertensione osservata con l’associazione terapeutica (Long et al., 2017; Ascierto et al., 2016; Long et al., 2015; Robert et al., 2015b; Larkin et al., 2014). La minor incidenza di effetti collaterali gravi (grado 3 e 4) ha ridotto la quota di pazienti che interrompono il trattamento per tossicità. Sulla base della valutazione del profilo rischio/beneficio, l’associazione BRAF inibitore più MEK inibitore è preferibile alla monoterapia con BRAF inibitore nel trattamento del melanoma avanzato con mutazione BRAF(600) (Associazione Italiana Oncologia Medica – AIOM, 2017).
In caso di melanoma avanzato con mutazione NRAS è stato valutato il farmaco binimetinb rispetto all'impiego di chemioterapia (dacarbazina) (Dummer et al., 2017). Binimetinib è risultato più efficace della chemioterapia in termini di percentuale di risposte obiettive (15% vs 7%) e sopravvivenza libera da progressione, soprattutto nei pazienti già trattati con immunoterapia (5,5 mesi vs 1,6 mesi); ma non in termini di sopravvivenza globale.
I dati clinici per melanoma avanzato positivo per la mutazione c-KIT sono limitati, ma l'impiego di imatinib in un trial di fase II è stato associato ad una risposta obiettiva del 20-30% (Hodi et al., 2013; Guo et al., 2011). Analoghe percentuali sono state osservate con nilotinib (Delyon et al., 2018; Guo et al., 2017; Carvajal et al., 2015; Lee et al., 2015).
Chemioterapia
La chemioterapia del melanoma avanzato (inoperabile o metastatico) si basa sull'uso di tre molecole:
La dacarbazina (disponibile in commercio come farmaco generico) è un farmaco antitumorale indicato in Italia per il trattamento del melanoma metastatico e, in associazione ad altri farmaci tumorali (polichemioterapia), nel trattamento del morbo di Hodgkin in stadio avanzato e nel sarcoma dei tessuti molli in stadio avanzato. E’ un agente alchilante, agisce cioè inserendo un gruppo alchilico (gruppo di atomi di carbonio e idrogeno) nelle proteine e nel DNA bloccando la crescita cellulare (farmaco citostatico). L’azione antitumorale della dacarbazina è data dall’inibizione della crescita cellulare, che è indipendente dalla fase del ciclo cellulare, e dall’inibizione della sintesi del DNA. La dacarbazina attraversa con difficoltà la barriera ematoencefalica, pertanto non è indicata in caso di metastasi al cervello.
La fotemustina (specialità medicinale: Muphoran) è approvata in Italia per il trattamento del melanoma metastatico e del tumore cerebrale primario. Il farmaco agisce come citostatico sulle cellule in mitosi.
La temozolomide (specialità medicinali: Temodal, Temomedac, Temozolamide) è approvata in Italia per il trattamento di tumori cerebrali (glioblastoma multiforme, astrocitoma anaplastico). È un analogo della dacarbazina e come quest’ultima agisce come agente alchilante bloccando la replicazione del DNA. La temozolamide subisce un processo di attivazione in vivo, può quindi essere considerata come una sorta di pro-farmaco.
La dacarbazina è stata per molto tempo il farmaco di riferimento per la chemioterapia applicata al melanoma. In studi di fase III, fotemustina e temozolamide sono risultati “non inferiori” a dacarbazina per percentuale di risposte obiettive (20-30%), tempo libero da progressione (2-3 mesi) e sopravvivenza globale (5-8 mesi) (Patel et al., 2011; Avril et al., 2004; Middleton et al., 2000). Entrambi i farmaci inoltre attraversano la barriera ematoencefalica e possono quindi essere utili in caso di metastasi cerebrali. Sia l'adozione di regimi terapeutici di polichemioterapia (combinazione di più farmaci chemioterapici) sia l'associazione della polichemioterapia con interferone alfa e interleuchina-2 non hanno prodotto vantaggi in termini di sopravvivenza rispetto alla chemioterapia con un solo farmaco. La chemioterapia è attualmente indicata come trattamento di seconda linea dopo l'immunoterapia o la terapia a bersaglio molecolare oppure quando queste terapie sono controindicate (Associazione Italiana Oncologica medica – AIOM, 2017).
Radioterapia
La radioterapia è un trattamento localizzato (terapia locoregionale) che utilizza radiazioni ad alta energie (radiazioni ionizzanti) per distruggere le cellule tumorali. Nel melanoma è indicata in genere per il trattamento delle metastasi cerebrali e ossee. La dose di radiazione da somministrare al paziente viene suddivisa in frazioni, somministrate in sedute giornaliere, per ridurre l'impatto del trattamento sul tessuto sano. Il trattamento non è di per sé doloroso; gli effetti collaterali dipendono dalla quantità di radiazione utilizzata e dall'area trattata.
Circa la metà dei pazienti con melanoma avanzato sviluppa metastasi cerebrali. Il trattamento standard per le metastasi cerebrali prevede l'impiego della radioterapia localizzata quando la metastasi è circoscritta oppure della radioterapia pan-encefalica quando la malattia è estesa. La radioterapia pan-encefalica è associata ad una mediana di sopravvivenza di 2-5 mesi, che può aumentare nei pazienti più giovani (età < 65 anni) e in assenza di evidenza di malattia extracranica.
In pazienti selezionati può essere utilizzata la radioterapia stereotassica o la radiochirurgia stereotassica. Il termine stereotassico indica l'utilizzo di un sistema di riferimento tridimensionale per individuare con estrema precisione lesioni profonde all’interno del cervello. La radiochirurgia stereotassica (o semplicemente radiochirurgia) utilizza dosi elevate di radiazione in modo da distruggere con estrema precisione il tessuto colpito (necrosi) risparmiando il tessuto sano circostante. La radiochirurgia è indicata in caso di un numero limitato (=/< 4) di lesioni tumorali cerebrali con dimensioni inferiori a 3-4 cm, in pazienti in buone condizioni fisiche (Scala di Karnofsky =/> 70) e con malattia extracranica stabile. Questa metodica determina una mediana di sopravvivenza di 5-11 mesi. Associata a trattamento radiante pan-encefalico permette di ottenere un miglior controllo della malattia locale (minor incidenza di recidiva locale, minor ricorso a radioterapia di salvataggio) senza incidere però sulla sopravvivenza globale (Associazione Italiana Oncologica medica – AIOM, 2017; Ajithkumar et al., 2015; Kocher et al., 2011; Aoyama et al., 2006). Combinata con l’immunoterapia, la radiochirurgia ha indotto, oltre ad un miglior controllo delle metastasi cerebrali, anche un vantaggio in termini di sopravvivenza globale. In uno studio clinico retrospettivo che ha confrontato CTLA4- inibitore (ipilimumab), farmaci anti-PD-1 e la combinazione di BRAF-inibitore più MEK-inibitore, il controllo della malattia cerebrale (assenza di malattia intracranica attiva) è risultato rispettivamente pari a 7,5 mesi vs 12,8 mesi vs 12,7 mesi, la sopravvivenza globale pari a 7,5 mesi vs 20,4 mesi vs 17,8 mesi (Choong et al., 2017).
La radioterapia può essere anche utilizzata come trattamento palliativo per alleviare i sintomi, soprattutto il dolore, o per ridurre la progressione della malattia a livello locale: linfonodi (sede addominale, pelvica, mediastinica), lesioni polmonari, lesione della pelle con ulcere sanguinanti.
Perfusione isolata d’arto
La perfusione isolata d’arto, anche nota come perfusione ipertermica antiblastica, è una terapia locoregionale indicata in caso di melanoma plurirecidivo in sede dermica e sottocutanea, mestastasi in transit e sarcomi agli arti. Si esegue isolando temporaneamente l’arto dalla circolazione sanguigna dell’organismo. Il sangue nell’arto viene fatto circolare utilizzando una sorta di pompa esterna (circolazione extracorporea). Il sangue nella parte esterna del circuito è preriscaldato (< 42°C) per aumentare la permeabilità cellulare ai farmaci antitumorali che sono aggiunti durante la circolazione extracorporea. Poiché l’arto è temporaneamente escluso dalla circolazione corporea generale, i farmaci antitumorali possono essere somministrati a dosaggi che altrimenti sarebbero eccessivamente tossici. La durata del trattamento è di circa un’ora. La perfusione ipertermica antiblastica induce necrosi delle metastasi nudulari cutanee, rimosse poi per via chirurgica.
Elettrochemioterapia
L’elettrochemioterapia è indicata come trattamento palliativo in caso di melanoma recidivante in sede cutanea e sottocutanea. L’elettrochemioterapia aumenta la permeabilità della membrana cellulare (elettroporazione) sfruttando gli impulsi elettrici. In questo modo possono essere somministrati farmaci antitumorali (bleomicina, cisplatino) che altrimenti non attraverserebbero la membrana cellulare. La bleomicina e il cisplatino sono, tra i farmaci antitumorali testati in associazione all'elettrochemioterapia, quelli che hanno dimostrato la maggiore attività antitumorale. La tecnica, standardizzata nel 2006, prevede la somministrazione per via intratumorale o endovenosa del farmaco antitumorale e la successiva applicazione del campo elettrico, posizionando uno o più elettrodi in corrispondenza della lesione tumorale. A seconda delle condizioni del paziente e della numerosità e sede dei noduli metastatici da trattare l’intervento avviene in anestesia locale o con la sedazione del paziente (Marty et al., 2006; Mir et al., 2006). Il campo elettrico lavora a livello cellulare aumentando transitoriamente la permeabilità delle membrane e a livello tissutale inducendo un effetto anti-vascolare che prolunga l’azione citotossica del farmaco per aumentata esposizione del tumore al chemioterapico (Campana et al., 2016).
La bleomicina attraverso la formazione di radicali dell'ossigeno provocare rotture sia sul singolo filamento che sulla doppia elica del DNA con conseguente blocco del ciclo cellulare e innesco del processo di apoptosi (morte programmata della cellula). Le cellule con turnover più elevato, come quelle tumorali sono più sensibili all'azione della bleomicina. Il farmaco può essere somministrato per via intratumorale ed endovena ed è eliminato dall'organismo con le urine. Pertanto è necessario che il paziente abbia una funzionalità renale soddisfacente. La bleomicina può dare effetti collaterali a breve termine (tossicità acuta), come reazioni allergiche, febbre e ipotensione, e effetti collaterali ritardati a livello polmonare, cutaneo e mucose. La tossicità ritardata polmonare rappresenta il fattore limitante la dose di farmaco somministrabile al paziente. A livello polmonare la bleomicina può causare polmonite interstiziale, fibrosi polmonare con formazione di infiltrati parenchimali. Il danno al parenchima polmonare può essere irreversibile e si manifesta soprattutto nei pazienti con età > 70 anni, nei pazienti trattati con dosi cumulative di farmaco > 400 UI, nei pazienti che hanno avuto precedenti malattie polmonari o che sono stati esposti a radioterapia al polmone. La tossicità cutanea associata alla bleomicina comprende iperpigmentazione, prurito, ipercheratosi, rash cutaneo, strie, vesciche, onicopatia, alopecia transitoria e parestesie (Campana et al., 2016).
Il cisplatino è un farmaco alchilante che reagisce con le basi azotate del DNA, ed è in grado di uccidere la cellule in tutte le fasi del ciclo cellulare. La combinazione del cisplatino con l'elettrochemioterapia ne aumenta la potenza di circa 80 volte. Il cisplatino può essere somministrato solo per via intratumorale e pertanto è indicato quando sono presenti poche lesioni cutanee tumorali. La somministrazione localizzata, riduce notevolmente gli effetti tossici sistemici del cisplatino aumentandone la tollerabilità (Campana et al., 2016).
Nei pazienti con melanoma trattati con elettrochemioterapia, risposte complete sono state osservate nel 20-50% dei casi. Gli effetti collaterali sono prevalentemente di tipo cutaneo e quello più comune è risultata l’ulcerazione (18-26% dei pazienti) (Mir-Bonafé et al., 2015; Campana et al., 2014, Ricotti et al., 2014; Caracò et al., 2013; Campana et al., 2012; Mozzillo et al., 2012; Kis et al., 2011; Quaglino et al., 2008). Uno studio pilota di piccole dimensioni ha verificato la possibilità di associare l’elettrochemioterapia con l’immunoterapia (ipilimumab). La combinazione dei due trattamenti ha comportato una reazione del sistema immunitario generalizzata, sia verso le lesioni tumorali trattate localmente (risposta completa: 27% dei pazienti; risposta parziale: 40%) sia al di fuori del raggio d’azione dell’elettrochemioterapia (tasso di controllo della malattia: 60%) (Mozzillo et al., 2015). L’elettrochemioterapia è stata valutata in via preliminare anche in associazione a terapia genica. Nello studio clinico, il gene dell’interleuchina-2 è stato veicolato tramite un plasmide con iniezione intratumorale, seguita da elettrochemioterapia. L’aumento della permeabilità della membrana cellulare indotto dal campo elettrico ha consentito il trasferimento all’interno delle cellule del gene dell’interleuchina. La risposta immunitaria scaturita ha avuto un effetto sistemico, andando ad interessare anche metastasi a distanza (regressione parziale: 8 pazienti su 19; regressione completa: 2 pazienti su 19) (Daud et al., 2008).