Quali farmaci per la Malattia di Crohn?
La malattia di Crohn può essere trattata per via farmacologica, chirurgica o con il trapianto di cellule staminali ematopoietiche.
L’obiettivo della terapia della malattia di Crohn è migliorare la qualità di vita del paziente tramite:
1) l’induzione della remissione
2) il mantenimento della remissione
3) la prevenzione/trattamento delle complicanze
4) la prevenzione degli effetti collaterali delle terapie
Poiché la malattia di Crohn presenta una varibilità molto elevata tra un paziente e l’altro e, per lo stesso paziente, nell’andamento della malattia nel tempo, la terapia richiede di essere personalizzata. Adattare la terapia ad ogni singolo paziente significa selezionare il trattamento più adatto in base al quadro clinico del paziente e individuare un’idonea tempistica per il follow up. L’obiettivo ideale verso cui andare è rappresentato dalla remissione completa della malattia senza l’uso di steroidi e nel ripristino dell’integrità della mucosa intestinale (guarigione mucosale). La guarigione mucosale infatti si associa ad un controllo più efficace della malattia, ad un periodo più lungo di remissione libero da steroidi, ad un più basso tasso di ospedalizzazione e di intervento chirurgico e ad una migliore qualità di vita.
Terapia farmacologica
La terapia farmacologica si basa sull’uso dei seguenti farmaci:
Sulla base delle linee guida redatta dalla European Crohn’s and Colitis Organisation, nei pazienti con malattia di Crohn localizzata a livello ileocecale in fase attiva i farmaci di prima scelta sono rappresentati dagli steroidi sistemici; nel caso poi questi non possano essere somministrati o non inducano risposta terapeutica (pazienti non responsivi) si passa ai farmaci biologici anti TNFalfa. I corticosteroidi sistemici in associazione a farmaci immunosoppressori sono anche indicati nei pazienti che presentano un decorso della malattia caratterizzato da un numero esiguo di ricadute nel tempo. Nei pazienti con malattia di Crohn localizzata al colon la terapia iniziale prevede sempre l’uso dei corticosteroidi sistemici, sostituiti in seconda battuta dalle tiopurine (azatioprina, 6-mercaptopurina) o dagli anti TNFalfa. Nei pazienti che non rispondono agli anti TNFalfa può essere somministrato il farmaco vedolizumab. I corticosteroidi non sono raccomandati nella terapia di mantenimento della remissione specialmente sul lungo periodo (European Crohn’s and Colitis Organisation, 2017).
Aminosalicilati
Gli aminosalicilati comprendono la masalazina e la sulfasalazina. La mesalazina o acido 5 amminosalicilico, da cui l’acronimo 5-ASA, è la parte farmacologicamente attiva della sulfasalazina (mesalazina coniugata ad un sulfamidico). Sono farmaci antinfiammatori utilizzati nelle forme moderate della malattia di Crohn, per il mantenimento della remissione dopo un attacco acuto isolato. Mentre la sulfasalazina è indicata quando la malattia colpisce il colon, la mesalazina può essere prescritta indipendentemente dalla sede d’infiammazione. Poiché per esercitare la propria azione antinfiammatoria la mesalazina deve entrare in contatto diretto con la parete intestinale, il farmaco è formulato in modo tale che la maggior parte sia rilasciata nell’ileo o nel colon. Da un punto di vista della tollerabilità la sulfasalazina provoca effetti collaterali in circa la metà dei pazienti trattati, mentre la mesalazina è associata ad una minor incidenza di effetti collaterali. Gli effetti collaterali più frequenti sono mal di testa (emicrania), nausea e mancanza d’appetito, possono poi comparire anche febbre, prurito e macchie sulla pelle (questi ultimi effetti collaterali sono più frequenti con la sulfasalazina).
Antibiotici
Gli antibiotici utilizzati nel trattamento della malattia di Crohn comprendono il metronidazolo, la ciprofloxacina e la rifaximina. Sono farmaci da utilizzare come coadiuvanti, in aggiunta cioè ad altra terapia, per ridurre la proliferazione batterica intestinale che si può avere in caso di complicanze della malattia: stenosi, asportazione della valvola ileo-ciecale, fistole o ascessi. L’uso di questi antibiotici nel trattamento della malattia attiva in assenza di complicanze non è supportata da benefici clinici evidenti e in queste condizioni diverse linee guida (American College of gastroenterology, British Society of gastroenterology, European Crohn’ and Colitis Organization) non ne raccomandano l’uso (Nitzan et al., 2016). Gli effetti collaterali di metronidazolo e ciprofloxacina sono simili: nausea, disturbi gastrointestinali, mal di testa, vertigini. Il metronidazolo può causare un gusto metallico permanente, urine scure e riduzione della libido. Inoltre, quando somministrato per lungo tempo può provocare neuropatia periferica (formicolio alle estremità) che si risolve con la sospensione del farmaco. La ciprofloxacina può causare effetti collaterali al gusto, olfatto, udito e tendini. A differenza del metronidazolo e della ciprofloxacina, la rifaximina è un antibiotico che non viene assorbito a livello intestinale.
Corticosteroidi
I corticosteroidi (o cortisonici) sistemici sono indicati nella malattia di Crohn in fase attiva. Rientrano in questo gruppo la budesonide, il prednisolone e il metilprednisolone, l’idrocortisone. Si tratta di farmaci con spiccata attività antinfiammatoria. La budesonide è indicata come alternativa al prednisolone e al metilprednisolone nei pazienti che non sopportano o che non possono assumere questi farmaci. Rispetto al prednisolone e al metilprednisolone, la budesonide è meno efficace ma pià tollerata (National Institute for Health and Care excellence, 2016). Gli effetti collaterali di questi farmaci sono diversi e possono rendere difficile l’aderenza alla terapia da parte del paziente. Possono provocare insonnia, aumento dell’appetito e del peso, viso gonfio (detto “a luna piena”), ritenzione di liquidi, irsutismo (aumento dei peli) nelle donne e acne. Se somministrati a dosi elevate o per periodi prolungati i cortisonici sono associati a difficoltà di cicatrizzazione delle ferite, miopatia, ipertensione, osteoporosi, osteonecrosi, cataratta, problemi alla pelle (atrofia) e al fegato (accumulo di grasso che prense il nome di steatosi epatica), infezioni, insufficienza adrenalica acuta, mialgia e artralgia. L’interruzione della terapia cortisonica inoltre richiede gradualità per evitare un effetto rebound ( peggioramento dei sintomi).
Immunosoppressori
Gli immunosoppressori sono farmaci che inibiscono il sistema immunitario. Il loro uso nella malattia di Crohn è dato dal coinvolgimento del sistema immunitario nei processi che scatenano e portano allo sviluppo della malattia. L’obiettivo è “spegnere” l’infiammazione senza intervenire nei meccanismi di difesa dell’organismo verso le infezioni.
Gli immunosoppressori utilizzati nella malattia di Crohn comprendono l’azatioprina, la 6-mercaptopurina e il metotrexato.
L’azatioprina è un profarmaco: in vivo si converte nella 6-mercaptopurina che costituisce il metabolita farmacologicamente attivo. L’azatioprina e la 6-mercaptopurina esplicano attività citotossica, per inibizione della replicazione cellulare, e immunomodulante, per inibizione delle risposte immunitarie cellulo-mediata e umorale (rilascio di anticorpi). Gli effetti dell’azatioprina nei pazienti con malattia di Crohn si osservano 3-6 mesi dopo l’inizio della terapia. Il farmaco è risultato efficace nel ridurre la sintomatologia e la riattivazione della malattia. L’effetto collaterale più importante è la riduzione della produzione del midollo osseo di globuli rossi (anemia), globuli bianchi (leucopenia) e piastrine (piastrinopenia). Circa il 10% dei pazienti non riesce a proseguire la terapia con azatioprina, o 6-mercaptopurina, a causa degli effetti collaterali.
Il metotrexato è un immunosoppressore e un antinfiammatorio: agisce come antagonista dell’acido folico a cui è strutturalmente correlato. Nella cellula il metotrexato blocca la sintesti dei cofattori enzimatici (derivati dell’acido folico) necessari per la sintesi delle basi azotate che compongono il DNA e l’RNA. E’ indicato nelle forme lievi-moderate della malattia di Crohn, in monoterapia o in associazione ai corticosteroidi nei pazienti che non possono essere trattati con azatioprina o 6-mercaptopurina. Si tratta quindi di un farmaco di seonda scelta. Da un punto di vista della tollerabilità, gli effetti collaterali osservati comprendono nausea, disturbi addominali, stomatite ulcerativa, leucopenia, malessere, affaticamento, ridotta resistenza alle infezioni. A dosaggio elevato il farmaco è associato a tossicità polmonare, gastrointestinale, midollare, renale ed epatica.
Farmaci biologici
L’infliximab è il primo farmaco biologico approvato per il trattamento della malattia di Crohn (1998). E’ un anticorpo monoclonale diretto contro il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFalfa o Tumor Necrosi Factor alpha). IL TNFalfa è una citochina con un ruolo centrale nella formazione del danno tissutale associato alla malattia di Crohn. Dopo l’infliximab sono stati autorizzati altri farmaci biologici anti TNFalfa (adalimumab, certolizumab pegol e golimumab) efficaci nelle malattie infiammatorie croniche intestinali che rispetto al capostipote rappresentano un passo in avanti per la modalità di somministrazione e per il minor rischio di reazioni allergiche. Di questi, adalimumab e la combinazione infliximab più azatioprima sembrano le terapie più efficaci nell’indurre e mantenere la remissione in pazienti con malattia di Crohn (Hazlewood et al., 2015). I farmaci biologici consentono di ottenere la remissione clinica e la guarigione mucosale in circa il 30-50% dei pazienti e la remissione libera da steroidi nel 20-30% dei pazienti (Pallone, Calabrese, 2016). Nel tempo comunque i farmaci biologici tendono a perdere efficacia in seguito alla formazione di anticorpi anti-farmaco e all’aumento dell’eliminazione del farmaco dall’organismo (clearance). Inoltre da un punto di vista della sicurezza (safety), alcune indicazioni suggeriscono per questi farmaci un aumento del rischio tumorale (melanoma, linfomi epatosplenici a cellule T) (Biancone et al., 2015). Sebbene i farmaci biologici riducano l’infiammazione della mucosa non ne bloccano il meccanismo sottostante, per cui, una volta interrotta la terapia farmacologica, l’infiammazione si ripresenta nuovamente, a distanza di un anno, in circa la metà dei pazienti trattati (Pallone, Calabrese, 2016).
Gli inibitori del TNFalfa infliximab e adalimumab possono essere utilizzati anche in gravidanza, almeno fino al termine del secondo trimestre perché a causa delle loro dimensioni i due anticorpi non passano attraverso la placenta. Dal terzo trimestre in poi, l’eventuale continuazione della terapia deve essere decisa caso per caso. Dagli studi clinici disponibili è stato osservato che nelle donne in gravidanza la concentrazione di adalimumab nel sangue del cordone ombelicale è inferiore a quella di infliximab e che il periodo ottimale per sospendere la terapia con gli anti TNFalfa è risultata di 24,6 settimane per infliximab e di 36,8 settimane per adalimumab. Sebbene il rischio di recidiva sia stato più elevato con adalimumab rispetto ad infliximab, la differenza non è risultata statisticamente significativa. La terapia anti TNFalfa inoltre non è stata assoociata ad un maggior rischio infettivo per la madre o il neonato, né a disturbi dello sviluppo del bambino. Tale tipo di terapia può essere ripresa durante l’allattamento perché la quota di farmaco che passa nel latte materno è minima e non rappresenta un rischio per il neonato (European Crohn’s Colitis Organization, 2017).
La terapia anti TNFalfa con infliximab o adalimumab ha dimostrato efficacia terapeutica e buona tollerabilità anche nella popolazione pediatrica. Nei pazienti anziani è associata invece ad un aumento del rischio di infezioni se combinata ai corticosteroidi (European Crohn’s Colitis Organization, 2017).
Il natalizumab e il vedolizumab sono due nuovi farmaci approvati per le malattie infiammatorie croniche intestinali, il primo solo negli USA, il secondo anche in Europa (specialità medicinale Entyvio). Questi farmaci riducono il flusso di leucociti mediato dalle molecole di adesione a livello della mucosa intestinale, determinando un importante effetto antinfiammatorio (Sandborn et al., 2005; Targan et al., 2007; Sands et al., 2014). In pazienti con malattia di Crohn già trattati con anti TNFalfa il vedolizumab è risultato associato a buona risposta clinica, remissione della malattia e miglioramento della qualità di vita a 5 anni (Feagan et al., 2013; Vermeire et al., 2017; European Crohn’s and Colitis Organization 2017). Da un punto di vista della tollerabilità, entrambi i farmaci umentano il rischio di infezioni. Il natalizumab, in particolare, è stato associato però ad un aumento dei casi di leucoencefalopatia multifocale progressiva per riattivazione del virus JC, particolare tipo di poliomavirus presente in più dell’85% della popolazione (Van Assche et al., 2005; Bloomgren et al., 2012).
La ricerca farmacologica si sta attualmente muovendo verso l’identificazione di molecole in grado di inibire altri meccanismi che sostengono l’infiammazione tissutale, diversi da quelli che coinvolgono il TNFalfa.
Alcuni studi si sono focalizzati sulle interleuchine 12 (IL12) e 23 (IL23), molecole proinfiammatorie i cui livelli aumentano nelle malattie infiammatorie croniche intestinali. Queste due interleuchine presentano entrambe una porzione (sub-unità p40) la cui inibizione ne blocca l’attività. Alcune varianti genetiche dei geni che codificano per IL23 e la sub-unità40 sono risultate associate alle malattie infiammatorie croniche intestinali. L’anticorpo ustekinumab (specialità medicinale Stelara) diretto contro la sub-unità p40 è risultato efficace in pazienti con malattia di Crohn che già erano stati trattati con inibitori del TNFalfa ed è risultato attenuare la psoriasi indotta da tali farmaci (ustekinomab prima di essere utilizzato per la malattia di Crohn era già in uso per il trattamento dell’artrite psoriasica) (Sandborn et al., 2008; Lolli et al., 2015). In questo stesso ambito di ricerca si pone risankizuman, anticorpo monoclonale umanizzato che inibisce IL23.
Altri studi hanno individuato nella via di segnalazione intracellulare citochina-mediato un potenziale target terapeutico. In questo ambito rientrano tofacitinib e filgotinib che in studi preclinici sono risultati efficaci nel ridurre gli effetti di diverse citochine rilasciate nelle malattie infiammatorie croniche intestinali. Queste due molecole potrebbero però essere associate, ad alte dosi, ad anemia per inibizione di una via di segnalazione intracellulare condivisa dal processo che porta alla formazione dei globuli rossi (eritropoiesi) (Pallone, Calabrese, 2017).
Un altro approccio oggetto d’indagine è quello di rendere più efficienti i meccanismi fisiologici che regolano in senso inibitorio l’infiammazione. Qesta linea di ricerca ha portato alla sintesi del farmaco mongersen, molecola anti-SMAD7. Lo SMAD7 è una citochina infiammatoria che nei pazienti con malattia di Crohn blocca una serie di reazioni mediate dal TGF (Trasforming Growth Factor) beta1. Il TGF beta1 svolge un ruolo antinfiammatorio perché inibisce la proliferazione e differenziazione dei linfociti T, riduce l’attivazione dei macrofagi e la maturazione delle cellule dendritiche. Sperimentato in un trial di fase II, mongersen, che tra l’altro è somministrato per via orale a differenza degli altri farmaci biologici impiegati nella malattia di Crohn, è risultato efficace nell’indurre remissione clinica nei pazienti in percentuali diverse a seconda della dose utilizzata (40 o 160 mg/die per due settimane) e significativmente maggiore rispetto al placebo (riduzione del punteggio CDAI, che valuta lo stato di malattia, del 55% con la dose di 40 mg/die, del 65% con la dose di 160 mg/die, del 10% con placebo). Gli effetti del farmaco inoltre si sono mantenuti nei tre mesi successivi al trattamento (Monteleone et al., 2015).
Terapia chirurgica
Più dell’80% dei pazienti con malattia di Crohn va incontro ad intervento chirurgico. La terapia chirurgica è indicata quando è necessario eliminare tratti di intestino a rischio di occlusione. L’intervento chirurgico pur migliorando la qualità di vita del paziente non è un intervnto risolutivo perché la malattia tende a ripresentarsi e ad interessare altri tratti di intestino precedentemente sani. L’asportazione della parte di intestino malata (resezione chirurgica) viene eseguita in presenta di un restringimento del lume intestinale per ispessimento della parete dell’organo (stenosi) e/o in presenza di fistole (tragitti comunicanti fra due organi o tra due anse intestinali) o masse infiammatorie. Poiché la recidiva dopo resezione chirurgica è elevata, l’intervento è in genere limitato allo stretto necessario per evitare che possa svilupparsi una sindrome da malassorbimento intestinale.
Altra modalità di intervento chirurgico è la stricturoplastica. E’ un intervento meno demolitivo della resezione chirurgica e in genere si attua in pazienti già trattati chirurgicamente che recidivano o in pazienti che presentano più tratti di stenosi. Si tratta di operare una incisione longitudinale, per la lunghezza cioè della parete dell’intestino, che viene poi richiusa trasversalmente.
Nei casi più gravi di malattia, può essere necessario intervenire con l’asportazione di parte o di tutto il colon, fino al coinvolgimento del retto e/o del perineo.
Cellule staminali
Il trapianto di cellule staminali ematopoitiche è indicato per i pazienti con malatti di Crohn che non risponde ad altri trattamenti (terapia di salvataggio). Con questa metodica è possibile indurre la remissione della malattia e pertanto migliorare la qualità di vita dei pazienti (remissione clinica: 79,4% dei pazienti; remissione endoscopica: 81,9% dei pazienti) (Qiu et al., 2017). Il trapianto consente, in un certo senso, di “resettare” la risposta del sistema immunitario adattativo (risposta che coinvolge i linfocti T) riducendo l’infiammazione tissutale. Circa l’82% e il 54% dei pazienti riescono ad ottenere, rispettivamente, una remissione libera da immunosoppressori e da corticosteroidi per almeno 12 mesi dopo il trattamento. Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche si associa però ad un elevato tasso di neutropenia febbrile (83,2% dei pazienti) e di morte correlata al trapianto (6,4% dei pazienti)(Qiu et al., 2017; Lopez-Garcia et al., 2017; Lindsay et al., 2017.
Dati sperimentali positivi sono stati ottenuti grazie all’impiego di cellule staminali mesenchimali da tessuto adiposo nel trattamento delle fistole anali. Le fistole anali rappresentano la tipologia più frequente di fistola, complicanza importante che interessa fino al 50% dei pazienti con malattia di Crohn. Le terapie disponibili per la cura delle fistole anali hanno un elevato tasso di fallimento. Le cellule staminali mesenchimali possiedono proprietà immunomodulanti e partecipano ai processi di riparazione dei tessuti. Nel trattamento delle fistole anali, tali cellule hanno indotto remissione clinica e radiologica prolungata (un anno) in circa la metà dei pazienti trattati (European Crohn’s and Colitis Organization. 2017; Panés et al., 2016). Altri approcci terapeutici, diversi dalla chirurgia, che però hanno dato benefici clinici molto limitati nel trattamento delle fistole anali hanno utilizzato il micofenolato mofetile e il il fattore umano ricombinante stimolante le colonie dei granulociti e dei macrofagi (GM-CSF). Il primo è un immunosoppressore impiegato nel rigetto dei trapianti, il secondo è un immunostimolante delle cellule mieloidi indicato dopo chemioterapia e ablazione con laser e anidride carbonica (European Crohn’s and Colitis Organization. 2017).