Quali farmaci per il Diabete Mellito?
Il gold standard del trattamento del diabete mellito è il mantenimento del controllo glicemico per evitare le complicanze acute e croniche della malattia. Per centrare questo obiettivo l’emoglobina glicata (HbA1c) dovrebbe essere mantenuta sotto il valore soglia di 53 mmoli/mol (7%). Può essere accettato un valore di emoglobina glicata più alto in particolari condizioni, quali ad esempio pazienti con diabete di tipo 1 che presentano complicanze, pazienti con diabete di tipo 2 in terapia con farmaci che possono indurre ipoglicemia, pazienti molti anziani e/o con patologie presenti che limitano l’aspettativa di vita, bambini e ragazzi (Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito, AMD/SID, 2018).
Le evidenze cliniche basate su studi clinici randomizzati hanno dimostrato come il controllo glicemico (valori medi di HbA1c pari o leggermente superiori a 53 mmoli/mol, equivalenti in unità percentuali al 7,0%) sia associato ad una riduzione delle complicanze microvascolari (retinopatia, nefropatia, neuropatia) sia nel diabete di tipo 1 (DCCT, 1993) che nel diabete di tipo 2 (UKPDS Group 1998 e 1998a). La concentrazione di emoglobina glicata è risultata correlata anche alle complicanze macrovascolari, ma i dati clinici che supportano un effetto preventivo verso il rischio cardiovascolare per valori di HBA1c nella norma sono limitati. Gli studi DCCT e UKPDS infatti non sono stati disegnati specificatamente per gli eventi cardiovascolari maggiori. La prosecuzione del follow up dei due studi, aumentando i dati clinici a disposizione, ha comuque messo in evidenza una riduzione statisticamente significativa di tali eventi nei gruppi di pazienti in trattamento intensivo (HbA1c ≤53 mmoli/mol). Studi clinici successivi, condotti in pazienti con diabete di tipo 2, quali gli studi ACCORD, ADVANCE, VADT, suggeriscono come valori di emoglobina glicata non superiori a 48 mmoli/mol (6,5%) (trattameno intensivo del diabete) possano ridurre l’insorgenza delle complicanze microvascolari, in particolare la nefropatia, ma non incida sugli eventi cardiovascolari maggiori. Nello studio ACCORD ad esempio, il trattamento intensivo della glicemia sebbene associato ad una riduzione dell’infarto miocardico non fatale, ha comportato un rischio di mortalità maggiore, motivo che ha portato all’interruzione anticipata dello studio. Inoltre, nei pazienti con diabete di tipo 2, il controllo dell’emoglobina glicata per valori inferiori a 48 mmoli/mol (6,5%) comporta un rischio di ipoglicemia grave che supera i benefici ottenuti (Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito, AMD/SID, 2018; ACCORD Study Group, 2008).
Il controllo della glicemia viene effettuatto tradizionalmente su sangue capillare con il glucometro (dispositivo portatile che consente di misurare la glicemia nel sangue). L’automonitoraggio del glucosio nel sangue (SMBG, Self Monitoring Blood Glucose) è necessario quando il paziente diabetico è in terapia insulinica; nel diabete non insulinico migliora il controllo glicemico a breve termine. La frequenza con cui effettuare l’automonitoraggio della glicemia dipende dai farmaci assunti, aumenta quanto maggiore è il rischio di ipoglicemia.
Negli ultimi anni sono stati messi a punto dei sistemi di misurazione in continuo del glucosio presente nel liquido interstiziale (soluzione acquosa in cui sono immerse le cellule) del tessuto sottocutaneo. Questi sistemi, indicati con gli acronimi CGM o rtCGM, (Continous Glucose Monitoring o real time CGM) e FGM (Flash Glucose Monitoring) si basano sull’integrazione di sensori di rilevazione del glucosio con applicazioni per smartphone che traducono i dati in curve di glicemia, tabelle, report. Entrambi i sistemi misurano la concentrazione interstiziale di glucosio ad intervalli prefissati, ma nel caso dei sistemi CGM la misurazione è indipendente dal paziente, mentre con il sistema FGM è il paziente che deve avvicinare il lettore al sensore che rileva la glicemia. Il sistema CGM è raccomandato nei pazienti con diabete di tipo 1 con un controllo glicemico non ottimale nonostante terapia insulinica adeguata; è consigliato nelle donne in gravidanza con diabete di tipo 1 e può essere di supporto ai pazienti con diabete di tipo 2 che hanno difficoltà a mantenere sotto controllo la glicemia. Il sistema FGM è raccomandato nei pazienti con diabete di tipo 1 con un buon controllo glicemico senza episodi di ipoglicemia inavvertita (il sistema è privo di allarmi per l’ipoglicemia).
Il sistema FGM è risultato efficace nel ridurre il tasso di ospedalizzazione, principale fattore di costi diretti e indiretti, nei pazienti diabetici in terapia insulinica multi-iniettiva, con insulina basale oppure con farmaci non insulinici (analisi condotta in due regioni italiane) (Mennini et al., 2022; Fokkert et al., 2019). L’uso di questo tipo di tecnologia sembra fornire una soluzione parziale al problema dell’aderenza ai regimi terapeutici: indipendentemente dal sesso, dopo un anno dall’inizio della terapia, l’aderenza al trattamento risulta inferiore al 40%.
Diabete di tipo 1
Nel diabete mellito di tipo 1 la terapia si basa sull’uso di insulina, associata ad una dieta adeguata e all’automonitoraggio della glicemia, in modo da riuscire a mantenere i livelli di emoglobina glicata, indice di controllo glicemico, sotto il valore target. In Italia, l’associazione dei medici diabetologi e la società italiana di diabetologia raccomandano valori di HbA1C inferiori a 48 mmoli/mol (6,5%) in caso di diabete di tipo 1 non complicato e a 53 mmoli/mol (7,0%) in caso di diabete complicato. Negli USA, l’America Diabetes Association raccomanda genericamente valori di HbA1c inferiori a 7,0%.
L’automonitoraggio della glicemia è raccomandato prima di ogni somministrazione di insulina in modo da poter aggiustare il dosaggio in base alla glicemia e alla quantità di carboidrati del pasto successivo. L’associazione americana dei medici diabetologi nelle linee guida del 2022 raccomanda ai pazienti in terapia insulinica intensiva (terapia multi-iniettiva o con microinfusore) il monitoraggio della glicemia sempre prima di ogni pasto o spuntino, occasionalmente dopo i pasti, prima di andare a letto e prima di svolgere attività fisica, quando c’è il sospetto di bassi livelli di glicemia, dopo aver trattato l’ipoglicemia fino a quando la glicemia non si normalizza, prima e durante la guida. Il controllo della glicemia ripetuto nell’arco della giornata, in un’ampia popolazione di bambini e ragazzi (circa 27mila), è stato associato a valori più bassi di emoglobina glicata e ad un’incidenza inferiore di complicanze acute (American Diabetes Association – ADA, 2022; Ziegler et al., 2011).
L’Associazione dei medici diabetologic italiani e la Società italiana di dibetologia raccomandano la terapia basal-bolus miltiiniettiva o con microinfusore (Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito, AMD e SID, 2018):
Recentemente sono stati immessi in commercio sistemi che associano il rilascio di insulina con microinfusore al monitoraggio in continuo della glicemia (SAP, Sensor Augmented Insulin Pump Therapy). I sistemi SAP possono prevedere o meno la sospensione automatica del rilascio di insulina. Sia in età adulta che pediatrica la SAP senza sospensione automatica dell’insulina ha dato esiti migliori in termini di riduzione dell’emoglobina glicata senza aumentare il rischio di ipoglicemia rispetto alla terapia multiniettiva o all’uso del solo microinfusore (Yeh et al., 2012; Szypowska et al., 2012). Ci sono inoltre evidenze che la SAP riduca gli episodi di ipoglicemia, moderata e severa, rispetto alla terapia multiiniettiva associata all’autominitoraggio della glicemia capillare e riduca la frequenza di ipoglicemia severa rispetto alla terapia com microinfusore senza monitoraggio continuo del glucosio (Steineck et et al., 2017).
In condizioni particolari, il trattamento del diabete di tipo 1 può prevedere il trapianto di pancreas o di isole pancreatiche. Il trapianto di pancreas è raccomandato nei pazienti che non riescono a controllare la glicemia e che presentano variazioni notevoli del glucosio nel sangue e/o complicanze croniche in evoluzione. Nei pazienti con insufficienza renale cronica le linee guida raccomandano il trapianto congiunto di pancreas e rene. Se non è possibile procedere al trapianto di pancreas si può procedere con il trapianto di isole pancreatiche. In caso di rimozione del pancreas per trauma o tumore, l’autotrapianto di isole del pancreas è indicato per prevenire o ridurre il diabete conseguente alla rimozione chirurgica del pancreas.
Diabete di tipo 2
La terapia del diabete mellito di tipo 2, come già osservato per il tipo 1, consiste nel mantenere la glicemia e l’emoglobina glicata sotto un valore soglia per ridurre il rischio delle complicanze a lungo termine. In particolare le linee guida raccomandano un target di emoglobina glicata compreso tra 49 mmoli/mol (6,6%) e 58 mmoli/mol (7,5%) nei pazienti in terapia con farmaci associati a ipoglicemia e un target inferiore a 53 mmoli/mol (7%) con farmaci non associati a ipoglicemia (le evidenze fornite dagli studi clinici indicano effetti significativi verso le complicanze microvascolari, più modesti verso le complicanze cardiovascolari).Valori di emoglobina glicata uguali o inferiori a 48 mmoli/mol (6,5%) sono risultati influenzare positivamente il rischio di complicanze microvascolari, ma le prove a disposizione sono per lo più indirette e la mancanza di evidenze dirette non consente di supportare questa raccomandazione (Linee Guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), 2022). Anche nel trattamento del diabete di tipo 2 il controllo della concentrazione di glucosio nel sangue è essenziale per aggiustare la dose dei farmaci ipoglicemizzanti, per monitorare se la terapia è efficace e verificare le oscillazioni della glicemia.
Nel diabete mellito di tipo 2 la terapia si avvale di classi differenti di farmaci ipoglicemizzanti da utilizzare in monoterapia o in associazione, combinati sempre ad uno stile di vita adeguato (attività fisica e dieta mediterranea). Tutti i regimi farmacologici per il trattamento del diabete di tipo 2, indipendentemente dai farmaci selezionati, presuppongono sempre un regime alimentare ricco in fibre e povero in grassi saturi e proteine, finalizzato a ridurre il grasso in eccesso. Il regime alimentare infatti influenza diversi fattori di rischio per il diabete di tipo 2: obesità, sindrome metabolica, dislipidemie, ipercolesterolemia, malattia cardiovascolare.
Per i pazienti diabetici obesi (indice di massa corporea, BMI, uguale o superiore a 35 kg/m2) che non riescono a controllare la glicemia con la terapia farmacologica, le linee guida più recenti, propongono la chirurgia bariatrica (interventi chirurgici su stomaco e/o intestino) (Rubino et al., 2016). Il calo ponderale che il paziente ottiene con questo tipo di intervento si mantiene nel tempo e migliora notevolmente la patologia diabetica che in alcuni casi può portare a risoluzione della malattia (Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito, AMD e SID, 2018).
Nel diabete mellito di tipo 2 la terapia farmacologica di associazione permette di ottimizzare gli effetti terapeutici e ridurre gli effetti collaterali quali aumento del peso corporeo, disturbi gastrointestinali, rischio di ipoglicemia. Se la terapia combinata e il cambiamento nello stile di vita non consentono di raggiungere i target terapeutici prefissati, lo step successivo è quello di introdurre il trattamento con insulina.
Altri parametri che influenzano la scelta dei farmaci da utilizzare per il trattamento del diabete mellito di tipo 2 comprendono: peso corporeo (indice di massa corporea, BMI), disturbi gastrointestinali, rischio di ipoglicemia, funzionalità renale (insufficienza renale) ed epatica, profilo cardiovascolare (insufficienza cardiaca).
La metformina è il farmaco di prima scelta per la maggior parte dei pazienti con diabete di tipo 2 (con o senza pregressi eventi cardiovascolari). Nei pazienti senza malattia cardiovascolare e con velocità di filtrazione glomerulare (eGFR) uguale o maggiore a 60 ml/min, gli analoghi del recettore del GLP1 (GLP1RA) e gli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio 2 (SGLT2) costituiscono farmaci di seconda linea, mentre gli inibitori della dipeptil-peptidasi 4, il pioglitazone, l’acarbosio e l’insulina dovrebbero essere considerati farmaci di terza linea. Gli SGL2 inibitori e gli GLP1RA sono efficaci nel ridurre lìemoglobina glicata, possiedono un rischio di ipoglicemia limitato e riducono l’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori e il rischio di mortalità. Inoltre hanno effetti positivi sul peso corporeo. Gli agonisti GLP1 a lunga durata d’azione, gli inibitori SGLT2, inoltre, sono da considerare farmaci di prima scelta nei pazienti diabetici con precedenti eventi cardiovascolari, in assenza di scompenso cardiaco. Nei pazienti con scompenso cardiaco, i farmaci di prima scelta sono rappresentati dagli inibitori SGLT2, mentre metformina e GLP1RA rappresentano farmaci di seconda linea (Linee guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), 2022).
L’aggiornamento 2022 delle linee guida SID/AMD non raccomanda più nel paziente con diabete di tipo 2 l’uso delle sulfaniluree e della repaglinide (farmaci insulino-secretagoghi perché, rispetto alle altre classi di farmaci, possiedono un’efficacia terapeutica inferiore sul lungo periodo, un maggior rischio di ipoglicemia, di eventi cardiovascolari e di mortalità (Linee guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologici (AMD), 2022).
Quando la terapia con farmaci ipoglicemizzanti non consente di raggiungere un controllo glicemico soddisfacente è necessario introdurre nella terapia del diabete di tipo 2 l’insulina. Il trattamento con insulina può essere anche transitorio e può essere combinato ad altri farmaci (metformina, inibitori DPP4, agonisti GLP1, inibitori SGLT2). La terapia di associazione consente di ridurre la dose di insulina e limitare l’aumento del peso corporeo. L’insulina può essere utilizzata anche nella fase iniziale di malattia in caso di scompenso glucometabolico. La terapia insulinca è necessaria in caso di chetoacidosi o stato iperosmolare iperglicemico (anche noto come sindrome iperosmolare non chetosica).
Lo schema terapeutica per l’insulina nella terapia del diabete di tipo 2 prevede la combinazione di insulina basale (una iniezione al giorno) a cui può essere aggiunta la somministrazione di insulina rapida ai pasti. Nei casi in cui la terapia multiiniettiva non sia ottimale è possibile valutare lìuso del microinfusore.
I farmaci ipoglicemizzanti comprendono:
Insulina
La prima insulina esogena utilizzata nel trattamento del diabete mellito di tipo 1 era di origine animale, ottenuta per estrazione dal pancreas di bue o suino. Attualmente si utilizza insulina ottenuta con la tecnica del DNA ricombinante. L’insulina ricombinante è formata da 2 catene, A e B, legate da ponti disulfuro (-S-S-). La struttura primaria dell’insulina è specie-specifica (varia da una specie all’altra) e questo spiega la comparsa di anticorpi antinsulina con l’insulina animale responsabili di alcune insulino-resistenze. Questi anticorpi sono utilizzati in diagnostica per il dosaggio radio-immunologico dell’insulina.
L’insulina è disponibile come insulina umana o come analoghi di sintesi leggermente modificati (insulina aspart, insulina detemir, insulina glargine, insulina glulisina, insulina lispro, insulina degludec) caratterizzati da profili di farmacocinetica particolari per comparsa dell’azione farmacologica (tempo di latenza), concentrazioni plasmatiche di picco, durata dell’effetto ipoglicemizzante.
L’insulina umana è distinta in insulina a breve, intermedia, lunga durata d’azione in base al tempo necessario alla comparsa dell’effetto ipoglicemizzante (tempo di latenza), alla concentrazione plasmatica massima e alla durata dell’azione.
L’insulina a breve durata d’azione, anche identificata come “insulina regolare“ (insulina R), è un’insulina non modificata, solubile, somministrabile per via sottocutanea, endovenosa e intramuscolare. E’ l’unica insulina usata in caso di coma diabetico e di intervento chirurgico. E’ caratterizzata da un tempo di latenza di 30 minuti e da una durata d’azione di circa 8 ore. Gli analoghi sintetici dell’insulina rapida sono l’insulina lispro, aspart e glulisine che, rispetto alla corrispondente insulina umana, agiscono in modo più rapido, breve e intenso consentendo un controllo più tempestivo della glicemia post-prandiale e riducendo il rischio di ipoglicemia in fase post prandiale tardiva. Rispetto all’insulina umana risultano pertanto più maneggevoli perché possono essere somministrati subito prima dei pasti (l’insulina umana deve esere somministrata 20-30 minuti prima), adattando la dose al contenuto di carboidrati del pasto.
L’insulina a durata d’azione intermedia comprende l’insulina isofano (sospensione di insulina e protamina, anche chiamata insulina NPH), l’insulina zinco protamina (ormai usata di rado) e l’insulina zinco amorfa sospensione. Sono insuline in sospensione o legate a sostanze (protamina, complessi con lo zinco) che rallentano l’assorbimento e quindi aumentano il tempo di latenza.
L’insulina a lunga durata d’azione è formulata in modo tale da avere un tempo di latenza prolungato e l’assenza di un picco di concentrazione plasmatico. Sono insuline a lunga durata d’azione l’insulina zinco sospensione cristallina (insulina ultralenta) e gli analoghi glargine, detemir e degludec con caratteristiche cinetiche differenti tra loro. L’insulina glargine è disponibile in due formulazioni (100 unità/ml e 300 unità/ml) che differiscono per velocità e durata dell’assorbimento. Gli analoghi lenti dell’insulina hanno un’emivita maggiore dell’insulina isofano o NPH e una maggiore riproducibilità nell’assorbimento che favoriscono la stabilità della glicemia riducendo il rischio di ipoglicemia. L’insulina detemir ha una durata d’azione leggermente più corta rispetto a glargine 100 unità, mentre degludec, la cui emivita supera le 24 ore, possiede un’azione molto più lunga di glargine 100 unità e detemir.
Esistono poi formulazioni di insulina dette bifasiche o intermedie che sono formate da miscele di diversi tipi di insulina umana e presentano un profilo di farmacocinetica intermedio fra l’insulina a durata d’azione intermedia o lunga.
Le insuline a durata d’azione intermedia o lunga hanno un tempo di latenza di 1-2 ore e una durata dell’effetto ipoglicemizzante di 16-35 ore.
Metformina
La metformina costituisce il farmaco di scelta nel trattamento del paziente con diabete mellito di tipo 2 non ancora trattato con farmaci. La metformina è considerata un farmaco insulino-sensibilizzante perché potenzia l’attività dell’insulina a livello epatico (inibisce la sintesi di nuove molecole di glucosio e la conversione del glicogeno in glucosio) e periferico (aumenta la captazione del glucosio da parte dei tessuti periferici).
La metformina può essere utilizzata in monoterapia o in associazione a pioglitazone, inibitori DPP4, agonisti GLP1 o inibitori SGLT2, da preferire a acarbosio, sulfoniluree o glinidi. La combinazione di metformina più un altro farmaco ipoglicemizzante è raccomandata come terapia iniziale quando l’emoglobina glicata è elevata. Quando la combinazione di metformina con un altro farmaco non è sufficiente per raggiungere un adeguato controllo glicemico, è possibile aggiungere un terzo farmaco alla terapia.
La metformina non influenza il peso corporeo e si associa ad un rischio di ipoglicemia simile al placebo quando non è somministrata in associazione a sulfoniluree o insulina. L’effetto collaterale più frequente è rappresentato dalla diarrea; tale effetto può essere in parte contrastato somministrando la metformina a basso dosaggio per le prime 2-4 settimane di terapia o, se possibile, utilizzando le formulazoni a rilascio prolungato.
La metformina può provocare acidosi lattica quindi è controindicata quando sussiste questo rischio come in caso di insufficienza respiratoria grave, scompenso cardiaco di classe III-IV NYHA e insufficienza epatica grave. La metformina è controindicata anche in caso di insufficienza renale cronica grave o quando sussiste il rischio di insufficienza renale acuta; nei pazienti con insufficienza moderata (velocità di filtrazione glomerulare compresa tra 30 e 60 ml/min/1,73m2) la dose di metformina non deve superare il valore di 1,5 g al giorno.
Inibitori SGLT2
La classe degli inibitori del co-trasportatore di sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT 2), o gliflozine, comprende (in ordine di approvazione in Europa) dapagliflozin, canagliflozin, empagliflozin e ertugliflozin. A questi si aggiunge ipragliflozin approvato nel gennaio 2014 in Giappone (specialità medicinale: Suglat).
I trasportatori sodio-glucosio di tipo 2, localizzati nel primo tratto del tubulo prossimale del nefrone, sono responsabili di circa il 90% del riassorbimento renale di glucosio. Il nefrone è l’unità funzionale del rene dedicata alla filtrazione. Il nefrone è composto da diverse parti: corpuscolo renale, tubulo contorto prossimale, ansa di Henle, tubulo contorto distale. Quest’ultimo termina nel dotto collettore che porta l’urina nella pelvi renale. L’inibizione dei trasportatori SGLT 2 impedisce il riassorbimento renale del glucosio che viene quindi eliminato nelle urine (glicosuria). Gli inibitori SGLT2 pertanto hanno un effetto ipoglicemizzante senza intervenire sulla secrezione di insulina.
Oltre agli effetti glicemici, l’aumento della glicosuria induce una riduzione del peso corporeo. Poiché il trasportatore accoppia ad ogni molecola di glucosio anche una di sodio, l’inibizione del trasportatore comporta oltre all’eliminazione del glucosio anche quella del sodio: la perdita di sodio nelle urine può indurre una riduzione dei valori di pressione arteriosa.
In associazione a metformina gli inibitori SGLT2 diminuiscono i livelli di emoglobina glicata con efficacia sovrapponibile o maggiore alle sulfoniluree e agli inibitori DPP4 (Cefalu et al., 2013; Lavalle-Gonzales et al., 2013; Schernthaner et al., 2013; Ridderstrale et al., 2014; Del Prato et al., 2015; Leiter et al., 2015).
Gli inibitori SGLT2 aumentano il rischio di ipoglicemia solo in associazione a sulfoniluree o insulina. Sono stati associati ad un aumento del rischio di chetoacidosi diabetica “euglicemica” (valori di glucosio non particolarmente elevati) soprattutto in presenza di disidratazione del paziente, limitato consumo di cibo, perdita di peso, infezioni, vomito o recenti interventi chirurgici. Un altro evento avverso raro segnalato per questa classe di farmaci è la gancrena di Founier, emergenza urologica caratterizzata da un’infezione necrotizzante a carico degli organi genitali esterni, del perineo e dell’area perianale. Gli inibitori SGLT2 sembrano intervenire anche sul metabolismo osseo - aumentano la concentrazione nel sangue di ormone paratiroideo e di fosfato - favorendo il rischio di fratture. Sono stati associati ad un aumento del rischio di amputazione agli arti inferiori (De Mori et al., 2020).
Dal punto di vista cardiovascolare (studi clini EMPA-REG OUTCOME, DECLARE-TIMI58, CANVAS, CVD-REAL Nordic, CVD-REAL 2 Study, EMPRISE), gli inibitori SGLT2 hanno evidenziato una riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (riduzione di infarto miocardico e ictus non fatali, ospedalizzazione per scompenso cardiaco, morte cardiovascolare) (Wiviott et al., 2019; Patorno et al., 2019; Kosiborod et al., 2018; Birkeland et al., 2017; Neal et al., 2017; Zinman et al., 2015).
L’evento avverso più frequente associato al trattamento con gli inibitori SGLT2 è un aumento delle infezioni genitourinarie, causa anche di interruzione anticipata della terapia farmacologica. L’aumento dell’incidenza di infezioni urinarie e/o genitali si manifesta già all’inizio della terapia e si mantiene per tutta la sua durata (Dave et al., 2019). L’associazione con gli inibitori DPP4 riduce il rischio di infezioni genitouranarie osservato con gli inibitori SGLT2 in monoterapia (Fadini et al., 2018). Raramente gli inibitori SGLT2 possono indurre chetoacidosi diabetica (fino ad un paziente su 1000) che in alcuni casi si è manifestata con livelli di glucosio del sangue più bassi dell’atteso (manifestazione atipica) (European Medicines Agency – EMA, 2016).
Poiché gli inibitori SGLT2 possiedono un effetto diuretico, la loro somministrazione nei pazienti anziani richiede cautale (rischio di disidratazione). Questi farmaci sono stati associati ad un effetto lieve e transitorio di riduzione del filtrato glomerulare, ma non hanno evidenziato effetti negativi sul rene a lungo termine. Anzi sembrano svolgere un effetto protettivo su quest’organo, prevenendo la progressione della microalbuminuria e la riduzione del filtrato glomerulare (Neal et al., 2017; Wanner et al., 2016). Poiché per funzionare hanno bisogno che il rene possa eliminare il glucosio nelle urine, gli inibitori SGLT2 non sono indicati nei pazienti con velocità di filtrazione ridotta (eGFR <60 mil/min).
Agonisti del recettore del GLP1
Un’altra classe di farmaci disponibili per il trattamento del diabete mellito di tipo 2 sono gli agonisti del recettore del GPL1 (peptide-1 glucagone-simile) che comprendono semaglutide, albiglutide, exenatide, exenatide a rilascio prolungato (exenatide LAR), liraglutide, lixisenatide e dulaglutide. Questi farmaci, somministrati per via sottocutanea, stimolano la sintesi e la secrezione di insulina ed inibiscono la secrezione di glucagone solo in risposta all’assunzione di zuccheri; rallentano lo svuotamento gastrico e riducono l’appetito provocando un precoce senso di sazietà.
Gli agonisti del recettore del GPL1 e gli inibitori DPP4 costituiscono le basi della terapia incretinica del diabete mellito focalizzata sul miglioramento della secrezione dell’insulina in risposta allo stimolo glicemico. Gli agonisti del recettore del GPL1 sono raccomandati in monoterapia o in associazione ad altri farmaci ipoglicemizzanti, inclusa insulina. semaglutide, dulaglutide e liraglutide sono autorizzati in Italia anche in monoterapia nei pazienti per i quali la metformina è controindicata. In alcune sottoclassi di pazienti, gli agonisti del recettore del GPL1 potrebbero essere utilizzati in monoterapia e in prima linea quando l’aumento di peso e il rischio di ipoglicemie potrebbero rappresentare controindicazioni importanti (Bruno et al., 2011; Garber, 2010; Waugh et al., 2010; Adler et al., 2009; Misurski et al., 2009; Nathan et al., 2009; Rodbard et al., 2009).
Gli agonisti del recettore del GLP1 si distinguono in due gruppi: a breve durata d’azione (exenatidie, lixisenatide) e a lunga durata d’azione (semaglutide, exenatide a rilascio prolungato o exenatide LAR, dulaglutide, liraglutide e albiglutide). Le molecole a lunga durata d’azione hanno dimostrato un’efficacia maggiore di quelle a breve durata d’azione in termini di riduzione di emoglobina glicata e glicemia a digiuno, ma hanno evidenziato un controllo leggermente inferiore sulla glicemia postprandiale. Le molecole a breve durata d’azione, di contro, possiedono un profilo di tollerabilità più favorevole perché associate ad una minor incidenza di eveni avversi. L’effetto collaterale più frequente è risultata essere la nausea, che tende comunque a scomparire dopo le prime settimane di terapia. Anche gli agonisti del recettore del GLP1 sono stati associati a pancreatite pertanto sono controindicati nei pazienti con pancreatite in atto o avuta precedentemente. La somministrazione di questi farmaci a pazienti con insufficienza renale cronica richiede un valore di velocità di filtrazione glomerulare (eGFR) superiore a 50 ml/min, con l’eccezione di liraglutide e dulaglutide che valori di eGFR più bassi, superiori a 15 ml/min.
Gli agonisti del recettore del GLP1 provocano riduzione del peso corporeo e della pressione arteriosa e risultano efficaci nel prevenire comparsa o progressione dei danni renali dovuti al diabete. semaglutide e liraglutide sono approvate anche per la gestione del peso in pazienti non diabetici. Negli studi di prevenzione cardiovascolare, questi farmaci hanno evidenziato una tendenziale riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (studi clinici EXSCEL, LEADER, ELIXA) (Holman et al., 2017; Marso et al., 2016; Pfeffer et al., 2015).
Per quanto riguarda l’efficacia terapeutica, gli agonisti del recettore del GLP1 in monoterapia sono risultati più efficacia della metformina e delle sulfoniluree; in associazione a metformina sono risultati più efficaci degli inibitori DPP4 e con efficacia simile o maggiore rispetto a sulfoniluree e pioglitazone (Weinstock et al., 2015; Charbonnel et al., 2013; Gallwitz et al., 2012; Bergenstal et al., 2010; Nauck et al., 2009). In combinazione con ipoglicemizzanti orali, gli agonisti del recettore del GLP1 hanno mostrato un’efficacia sovrapponibile o maggiore dell’insulina basale, con un minor effetto sul peso corporeo (l’insulina favorisce l’aumento del peso) (Giorgino et al., 2015; Russel-Jones et al., 2009). Inoltre, la terapia combinata agonisti GLP1 “long-acting” più insulina rapida ha evidenziato un’efficacia superiore alla strategia insulina basal-bolus (Blonde et al., 2015).
Inibitori DPP4 (gliptine)
Gli inibitori della dipeptidil dipeptidasi 4 (inibitori DPP4) approvati in Italia comprendono alogliptin, linagliptin, saxagliptin, sitagliptin e vildagliptin. Gli inibitori DPP4 sono indicati in associazione a farmaci ipoglicemizzanti, inclusa insulina, per migliorare il controllo glicemico del paziente con diabete di tipo 2. In italia sono disponibili anche combinazioni a dose fissa con metformina o inibitori SGLT1; alogliptin è disponibile in combinazione anche con pioglitazone. Negli USA le gliptine sono approvate anche in monoterapia.
Gli inibitori DPP4 bloccano l’enzima (dipeptidil peptidasi 4 o DPP4) che inattiva per idrolisi due ormoni intestinali, GLP1 (peptide-1 glucagone-simile) e GIP (polipeptide insulinotropico glucosio-dipendente) che, a loro volta, intervengono nella regolazione dei livelli di glucosio nel sangue. Quando la glicemia aumenta, GLP1 e GIP stimolano sintesi e rilascio di insulina dalle cellule beta del pancreas. GLP1, inoltre, inibisce il rilascio del glucagone dalle cellule alfa del pancreas. L’aumento dell’insulina associato alla riduzione del glucagone induce una diminuzione della sintesi epatica di glucosio. GLP1 e GIP sono glucosio-dipendenti: quando la glicemia è bassa i due ormoni non modificano l’attività di secrezione delle cellule pancreatiche.
Gli inibitori DPP4 riducono l’emoglobina glicata, ma l’effetto dipende dalla quantità di emoglobina glicata iniziale (Deacon et al., 2012). Negli studi clinici di confronto diretto gli inibitori DPP4 hanno mostrato efficacia sovrapponibile alle sulfoniluree a medio termine, leggermente più bassa a breve termine (Mishriky et al., 2015); efficacia simile o più bassa rispetto a pioglitazone e agli inibitori SGLT2 (Lewin et al., 2015; Lavalle-Gonzalez et al., 2013; Schemthaner et al., 2013; Liu et al., 2013; Bergenstal et al., 2010; Bolli et al., 2009); efficacia inferiore agli agonisti GLP1 (Weinstock et al., 2015; Charbonnel et al., 2013).
Gli inibitori DPP4 non provocano ipoglicemia quando somministrati da soli, non influenzano il peso corporeo e non danno effetti collaterali gastrointestinal. Possono essere utilizzati in caso di insufficienza renale anche grave con un aggiustamento della dose. Fa eccezione il linagliptin che può essere somministrato senza modificare la posologia in pazienti con insufficienza renale od epatica, indipendentemente dal grado di insufficienza, perchè eliminato per il 90% in forma immodificata per via enterobiliare e con indicazioni preliminari di effetti positivi sull’albuminuria (riduzione del rapporto urinario albumina/creatinina: 32% vs 6% rispettivamente con linagliptin e placebo) (Groop et al., 2013). Gli inibitori DPP4 possiedono un basso grado di interazione farmacologica che li rende farmaci piuttosto maneggevoli in politerapia. Sono controindicati in pazienti con pancreatite in atto o avuta precedetemente perché associati al rischio di pancreatite.
Sono stati condotti diversi studi clinci per valutare il ruolo degli inibitori DPP4 in pazienti con rischio cardiovascolare.
In una metanalisi, che ha preso in considerazione 70 studi clinici randomizzati per un totale di quasi 42000 pazienti, la somministrazione di inibitori DPP4 è stata associata ad una riduzione statisticamente significativa del rischio di mortalità cardiovascolare, infarto miocardico non fatale e ictus non fatale (esito clinico primario) rispetto al gruppo di controllo (p <0,001) (Monami et al., 2013). Questo dato non è stato confermato in tre studi clinici di ampie dimensioni condotti con saxagliptin, alogliptin e sitagliptin: lo studio SAVOR-TIMI 53 (Saxagliptin Assessment of Vascular Outcomes Recorded in Patients with Diabetes Mellitus - Thrombolysis in Miocardial Infarction), lo studio EXAMINE (Examination of Cardiovascular Outcomes with Alogliptin versus Standard of Care) e lo studio TECOS (Trial Evaluating Cardiovascular Outcomes with Sitagliptin, TECOS). Negli studi clinici di riferimento non sono state osservate differenze tra inibitori DPP4 e placebo nell’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori e mortalità cardiovascolare. E’ stato però segnalato un lieve aumento dell’incidenza di ricovero ospedaliero per scompenso cardiaco a carico di saxagliptin (aumento statisticamente significativo) e di alogliptin (aumento non statisticamente significativo), ma non di sitagliptin (Green et al., 2015; Scirica et al., 2013; White et al., 2013).
Pioglitazone
Il pioglitazone è l’unico farmaco disponibile in Europa della classe dei tiazolidinedioni o glitazoni. E’ un agonista del recettore nucleare PPAR gamma (PPARg) che interviene nella regolazione del metabolismo del glucosio e nell’accumulo degli acidi grassi (lipogenesi). La stimolazione del recettore PPARg aumenta la sensibilità dei tessuti all’insulina (attività insulino-sensibilizzante) senza modificare il rilascio dell’ormone dalle cellule beta pancreatiche.
Il pioglitazone non ha un’azione rapida sulla glicemia: l’effetto massimo si osserva dopo 4-6 settimane. L’associazione pioglitazone/metformina ha evidenziato un’efficacia simile a quella delle sulfoniluree e degli inibitori DPP4, inferiore agli agonisti GLP1 negli studi di breve durata (fino ad 1 anno); un’efficacia sull’emoglobina glicata superiore alla gliclazide in studi della durata di 2 anni (Liu et al., 2013; Bergenstal et al., 2010; Bolli et al., 2009;Charbonnel et al., 2005; Matthews et al., 2005).
Il pioglitazone non provoca ipoglicemia, ma aumenta il peso corporeo (stimola la formazione di tessuto adiposo per attivazione del recettore PPARg). Altri eventi avversi comprendono: ritenzione idrica (controindicazione all’uso in pazienti con insufficienza cardiaca); riduzione della densità ossea nelle donne (aumento del rischio di frattura pari a due volte) (Loke et al., 2009); induzione/peggioramento dell’edema maculare diabetico, soprattutto in associazione a insulina (Idris et al., 2012); potenziale associazione a tumori della vescica (controindicazione in caso di carcinoma della vescica in atto o avuto in precedenza e di ematuria la cui causa non è stata accertata). Il pioglitazone può essere somministrato in pazienti con funzionalità renale ridotta e presenta un profilo cardiovascolare favorevole in pazienti, diabetici e non, con precedenti eventi cardiovascolari maggiori (riduzione del rischio di infarto e ictus); può aumentare il rischio di scompenso (Kernan et al., 2016; Erdmann et al., 2007; Wilcox et al., 2007; Dormandy et al., 2005).
Acarbosio
L’acarbosio è l’unico rappresentante della classe degli inibitori dell’alfa-glucosidasi disponibile in Italia. L’alfa-glucosidasi, anche nota come maltasi, è l’enzima che scinde il legame tra le molecole di glucosio. L’inibizione di questo enzima da parte dell’acarbosio ritarda la digestione dei carboidrati che per essere assorbiti attraverso la mucosa intestinale devono essere ridotti in zuccheri semplici (monosaccaridi). L’acarbosio pertanto riduce le escursioni glicemiche postprandiali.
L’acarbosio può rappresentare un’alternativa alla metformina quando questa è controindicata e può essere preso in considerazione in terapie di associazione per ridurre le variazioni della glicemia postprandiale. Dati di confronto tra acarbosio e altri farmaci ipoglicemizzanti sono disponibili solo per trattamenti a breve termini. Negli studi clinici di riferimento gli effetti dell’acarbosio sull’emoglobina glicata sono risultati simili a quelli della metformina e delle sulfoniluree (Yang et al., 2014; Wang et al., 2011).
L’acarbosio può provocare disturbi gastrointestinali (diarrea, flatulenza) che si attenuano con schemi terapeutici che prevedono dosi iniziali basse da aumentare gradualmente. Non provoca ipoglicemia quando somministrato da solo e può essere somministrato in pazienti con ridotta funzionalità renale o epatica. Non influenza il profilo cardiovascolare.
Sulfoniluree
Le sulfoniluree stimolano le beta cellule pancreatiche a rilasciare insulina legandosi ad un recettore di membrana cellulare (Sulphonyl Urea Receptor 1). L’efficacia sull’iperglicemia è rapida ma transitoria. Attualmente sono raccomandate nelle terapie di associazione come terzo farmaco da aggiungere a due farmaci non insulinici. L’associazione con insulina non è raccomandata per il rischio di ipoglicemia. Secondo le ultime linee guida SID/AMD 2022 le sulfoniluree non dovrebbero essere più considerate nel trattamento del diabete di tipo 2 perché rispetto alle altri classi di farmaci antidiabetici presentano una minor efficacia a lungo termine, un rischio maggiore di ipogliemia, di eventi non fatale, morte cardiovascolare) e di mortalità (Linee guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologici (AMD), 2022).
In monoterapia, nel breve periodo, le sulfoniluree hanno dimostrato un’efficacia terapeutica simile a metformina, maggiore dei glitazoni e inferiore agli agonisti GLP1; a lungo termine sono risultate meno efficaci della metformina e dei glitazoni.
In associazione a metformina, le sulfoniluree hanno evidenziato a breve temine (<1 anno) efficacia superiore a acarbosio e agli inibitori DPP4, simile a pioglitazone e agli agonisti GLP1, uguale o inferiore agli inibitori SGLT2; a lungo termine (2-4 anni) efficacia simile o inferiore agli inibitori DPP4, inferiore a pioglitazone, inibitori SGLT2 e agonisti GLP1.
Le sulfoniluree inducono aumento del peso corporeo e ipoglicemia. Da un punto di vista cardiovascolare, le indicazioni estrapolabili dagli studi clinici sono contrastanti: in alcune metanalisi di studi randomizzati, ma non in altre, le sulfoniluree sono state associate ad un maggior rischio di ictus e di mortalità per tutte le cause (Liu et al., 2016; Varvaki Rados et al., 2016; Monami et al. 2013; Phung et al., 2013; Selvin et al., 2008).
Considerando le singole molecole, la sulfonilurea con il profilo di sicurezza più favorevole in termini di rischio ipoglicemico e morbilità/mortalità cardiovascolare è la glicazide quella con il profilo più sfavorevole la glibenclamide.
Repaglinide
La repalginide appartiene alla classe delle glinidi ed è l’unica molecola disponibile in Italia. Possiede un’efficacia simile alle sulfoniluree con cui condivide il meccanismo d’azione: stimola il rilascio di insulina dalle cellule beta del pancreas. L’azione ipoglicemizzante è rapida, inizia circa mezz’ora dopo la somministrazione, e perdura per la durata del pasto. Il farmaco è escreto per via epatica.
La repaglinide causa ipoglicemia. Il rischio è sovrapponibile a quello delle sulfonilree, con l’eccezione della glibenclamide (non sono disponibili dati sulla sicurezza cardiovascolare della glibenclamide).
Come già osservato per le sulfoniluree, le linee guida SID/AMD 2022 non raccomandano l’impiego della repaglinide nel trattamento del paziente con diabete di tipo 2, perché con un profilo di efficacia a lungo termine e di sicurezza (ipoglicemia, eventi cardiovascolari maggiori, mortalità) inferiori alle altre classi di farmaci antidiabetici (Linee guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), 2022).
Classi di farmaci antidiabetici
I farmaci impiegati nel trattamento del diabete mellito comprendono (le specialità medicinali presenti in Italia sono riportate in corsivo):