Il diabete mellito o più semplicemente diabete è un disordine metabolico cronico caratterizzato da elevati livelli di glucosio nel sangue dovuti ad una insufficiente produzione di insulina da parte del corpo e/o ad alterazioni nell’azione dell’insulina. (leggi)
A seconda della causa, il diabete mellito è classificato in diabete di tipo 1, diabete di tipo 2, diabete gestazionale, tipologie specifiche di diabete. (leggi)
I sintomi del diabete mellito variano a seconda che si tratti di diabete di tipo 1 o 2, diabete gestazionale. (leggi)
L’anamnesi permette di rilevare nella storia del paziente la presenza di malattie che possono favorire la comparsa di diabete mellito o di familiarità verso il diabete. (leggi)
Il gold standard del trattamento del diabete mellito è il mantenimento del controllo glicemico per evitare le complicanze acute e croniche della malattia. (leggi)
Nei pazienti che sviluppano il diabete mellito di tipo 2, spesso l’insorgenza della malattia è preceduta da alterazioni del metabolismo quali intolleranza al glucosio, insulino resistenza e dislipidemia. Adottare valide misure in grado di modificare lo stile di vita (attività fisica, dieta) è risultata una strategia efficace per prevenire o ritardare la manifestazione del diabete. (leggi)
Se ritieni di avere i sintomi del diabete mellito, o se a qualcuno dei tuoi familiari è stato diagnosticato il diabete mellito, parlane con il tuo medico di fiducia. (leggi)
Le medicine non convenzionali tendono ad avere un approccio olistico nei confronti della malattia, tendono cioè a considerare “il malato“ nella sua complessità di individuo, al di là del singolo organo malato. (leggi)
Le informazioni contenute nella ricerca Pharmamedix dedicata al diabete mellito sono state analizzate dalla redazione scientifica con riferimento alle fonti seguenti. (leggi)
Che cos'è il Diabete Mellito?
Il diabete mellito o più semplicemente diabete è un disordine metabolico cronico caratterizzato da elevati livelli di glucosio nel sangue dovuti ad una insufficiente produzione di insulina da parte del corpo e/o ad alterazioni nell’azione dell’insulina. Il glucosio è uno zucchero semplice (monosaccaride) che costituisce la principale fonte di energia per la cellula. Nel diabete le alterazioni del metabolismo degli zuccheri si associano ad alterazioni del metabolismo delle proteine e dei grassi (DeFronzo, 2004).
Il diabete mellito non deve essere confuso con il diabete insipido, causato da un deficit dell’ormone antidiuretico ADH o vasopressina (diabete insipido centrale) o da una risposta inadeguata del tubulo renale all’ormone ADH (diabete insipido nefrogeno).
Il termine “mellito“ che qualifica il diabete fa riferimento al sapore “dolce“, mellitus appunto, delle urine per la presenza dello zucchero.
Classificazione del diabete
Il diabete mellito si distingue in diabete di tipo 1 e diabete di tipo 2. Il primo, in passato detto anche diabete insulino-dipendente (IDDM, Insulin Dependent Diabetes Mellitus) è causato dalla mancata produzione di insulina endogena ed interessa circa il 10% dei pazienti con diabete mellito, mentre il secondo, in passato detto anche diabete insulino-indipendente (NIIDM, non-Insulin Dependent Diabetes Mellitus) è causato da una produzione non sufficiente di insulina e/o dall’incapacità delle cellule target di rispondere all’insulina. Il diabete di tipo 2 interessa circa il 90% dei pazienti con diabete mellito.
Oltre al diabete di tipo 1 e 2, si distinguono il diabete gestazionale che si manifesta in gravidanza e il diabete causato da difetti genetici, endocrinologici o secondario, dovuto a farmaci o procedure diagnostiche (World Health Organization - WHO, 1999).
L’insulina è un ormone polipeptidico secreto dalle cellule beta delle isole di Langerhans del pancreas. E’ un ormone ipoglicemizzante, riduce cioè la glicemia, ossia la concentrazione di glucosio nel sangue. L’insulina infatti agisce aumentando la captazione di glucosio nel tessuto muscolare striato e nel tessuto adiposo e inibendo il rilascio di glucosio dal fegato, unica fonte di glucosio tra un pasto e quello successivo. L’insulina inoltre stimola la lipogenesi (formazione di acidi grassi a partire dal glucosio) nel fegato e nel tessuto adiposo e inibisce la lipolisi (rilascio di acidi grassi liberi); favorisce il trasporto intracellulare degli aminoacidi e la sintesi proteica.
Nel diabete mellito, la secrezione di insulina endogena è assente o inferiore ai valori normali (18-40 U/die equivalenti a 0,2-0,5 U/kg). Nei pazienti non diabetici ma che presentano resistenza verso l’insulina e obesità, la produzione di insulina può aumentare di 4 volte rispetto al valore normale.
Diabete di tipo 1
Il diabete mellito di tipo 1 si manifesta, in genere, in età pediatrica o nell’adolescenza ed è causata dalla progressiva perdita di cellule beta del pancreas con conseguente riduzione della produzione di insulina endogena. L’insulina deve quindi essere somministrata per via esogena per tutta la durata della vita. Poichè la distruzione delle cellule beta pancreatiche presenta caratteristiche individuali, la manifestazione della malattia può avvenire in età differenti. Nei pazienti adulti la perdita delle cellule beta è molto più lenta che in età giovanile e le forme di diabete di tipo 1 che si manifestano in età adulta sono definite con l’acronimo inglese LADA: Late Autoimmune Diabetes in Adults. La perdita delle cellule pancreatiche può essere autoimmunitaria o idiopatica (causa non nota). Nel sangue dei pazienti con diabete di tipo 1 sono stati individuati anticorpi diretti contro molecole (antigeni) presenti sulla superficie delle cellule che producono l’insulina. Nell’insorgenza del diabete di tipo 1 giocano un ruolo fondamentale sia fattori genetici (il rischio di malattia nei gemelli omozigoti è stimato attorno al 30-40%, nei fratelli diminuisce al 5-10% e nei figli scende al 2-5%) sia fattori ambientali (l’incidenza della malattia varia a seconda delle regioni geografiche: in Asia e Sud America l’incidenza di nuovi casi è di 1-3 su 100mila persone/anno, nel Sud Europa di 10-20 e nei paesi del Nord Europa di 30-60 nuovi casi su 100 mila persone). I ricercatori hanno ipotizzato che fattori genetici possano favorire una risposta immunitaria diretta contro le cellule beta pancreatiche in caso di esposizione ad alcuni virus (Epstain-Barr, xoxsackievirus, cytomegalovirus, morbillo, parotite, influenza) e, nei neonati, ad alcuni alimenti (inserimento precoce nella dieta di latte vaccino e cereali). L’ipotesi è che, ereditando i geni che interessano la risposta immunitaria, si erediterebbe anche “una predisposizione” a sviluppare il diabete di tipo 1 in determinati contesti. Nei pazienti con diabete di tipo 1, il trattamento con l’insuina è necessario per ridurre i sintomi della malattia (glicemia alta, sete intensa (polidipsia), formazione eccessiva di urina (poliuria), chetoacidosi) e le complicanze tardive (retinopatia, nefropatia, neuropatia, vasculopatie periferiche).
Diabete di tipo 2
Il diabete mellito di tipo 2 costituisce la forma più diffusa della malattia. Questa forma di diabete ha un’origine multifattoriale: alterazioni genetiche si combinano con fattori “ambientali” che determinano una riduzione della produzione di insulina da parte del pancreas e una perdita della capacità delle cellule di rispondere all’ormone (insulino-resistenza). Il diabete di tipo 2 si sviluppa in genere dopo i 40 anni, ma sono stati osservati casi in pazienti decisamente più giovani (Maturity Onset Diabetes of the Young o MODY). Alcuni fattori favoriscono lo sviluppo di diabete mellito di tipo 2: la familiarità (il 40% dei diabetici ha un parente di primo grado con la stessa malattia, la percentuale sfiora il 100% per i gemelli omozigoti), l’obesità, l’aumento dell’età e la vita sedentaria.
Su alcuni di questi fattori non è possibile intervenire, quali la familiarità, su altri invece l’intervento può avere un risvolto molto positivo nel ridurre il rischio di diabete mellito di tipo 2, come obesità e vita sedentaria. Cambiamenti nella dieta ed attività fisica regolare sono in grado di ridurre del 58% il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 (Lindstrom et al., 2003). Per quanto riguarda la dieta le raccomandazioni privilegiano il consumo di alimenti tipici della dieta mediterranea. Questi alimenti comprendono soprattutto frutta, verdura, fibre, grassi insaturi e pesce.
Diabete gestazionale
Il diabete gestazionale è definito come “Intolleranza ai carboidrati evidenziata per la prima volta durante la gravidanza”. La definizione è indipendente dalla terapia e dal fatto che il diabete possa persistere dopo il parto (Metzger et al., 2007). Il diabete gestazionale interessa circa il 5-7% delle donne in gravidanza. La percentuale può aumentare sensibilmente in alcune popolazioni (in Sardegna, ad esempio, la maggior prevalenza di diabete di tipo 1 rispetto al resto d’Italia si associa ad una prevalenza di diabete gestazionale pari al 22,3%.). Fattori di rischio per il diabete gestazionale comprendono: familiarità per diabete mellito, sovrappeso/obesità, età >35 anni. Il mancato controllo del diabete in gravidanza comporta rischi sia per la madre (ipertensione, nefropatia) sia per il feto (aborto, nascita pretermine, malformazioni, sindrome metabolica). Circa il 70% delle donne che manifesta il diabete in gravidanza manifesterà successivamente la malattia. L’analisi di 28 studi clinici ha evidenziato un’incidenza cumulativa di diabete che andava da 2,6% al 70% a partire dalle 6 settimane dopo il parto fino a 28 anni dopo il parto. I dati hanno indicato un aumento marcato dell’incidenza cumulativa di diabete mellito nei primi 5 anni dopo il parto che è proseguita con un andamento stabile (plateau) a partire dai 10 anni dopo (Kim et al., 2002).
Altre forme di diabete
Nella qualifica “tipi specifici di diabete“ rientrano le forme di diabete mellito che riconoscono come causa difetti genetici a carico delle cellule beta (diabete di tipo 2 in pazienti giovani (MODY), diabete neonatale, diabete dovuto a mutazioni del DNA mitocondriale) o difetti genetici funzionali dell’insulina (insulino resistenza di tipo A, lepracaunismo), patologie endocrine (acromegalia, Cushing, feocromocitoma, glucagonoma), patologie del pancreas esocrino (pancreatite, pancreatectomia, tumori, fibrosi cistica), uso di particolari categorie di farmaci (glucocorticoidi, farmaci immunosoppressori, tiazidici, diazzossido, antiretrovirali), infezioni (rosolia congenita), reazioni immunomediate, sindromi sistemiche (es. sindrome di Down, atassia di Friedreich, sindrome di Klinefelter, sindrome di Wolfram, sindrome di Turner).
Glicemia
Per diagnosticare il diabete mellito si utilizza la glicemia, ovvero la concentrazione di glucosio nel sangue. I valori di glicemia sono considerati nella norma se oscillano fra 60 e 100 mg/dL a digiuno e se non superano i 140 mg/dL due ore dopo il pasto (glicemia postprandiale) nell’adulto e nel bambino (criteri condivisi dall’associazione americana dei diabetologi (ADA), da quella italiana (AMD) e dalla società italiana di diabetologia (SID)). Nel neonato la glicemia è nella norma se la concentrazione di glucosio nel sangue è pari a 29-90 mg/dL. Per avere l’andamento medio nel tempo dei valori di glicemia si utilizza l’emoglobina glicata sierica (HbA1c). La glicemia infatti varia significativamente nell’arco della giornata; l’emoglobina glicata è un indice del valore medio di glicemia nelle 6-8 settimane precedenti il test, periodo che corrisponde alla vita media degli eritrociti o globuli rossi del sangue. L’emoglobina glicata è formata dall’emoglobina A1 (che rappresenta circa il 96% dell’emoglobina presente nell’organismo) legata al glucosio. In condizioni normali l’emoglobina glicata è inferiore al 7%; nei diabetici spesso supera questo valore. La quantità di emoglobina glicata è il parametro che permette di verificare se il diabete mellito è controllato e il target da raggiungere e mantenere dipende dal tipo di terapia farmacologica adottata (inferiore a 7,5% se i farmaci sono associati a ipogliemia, inferiore a 7% se i farmaci non sono associati a ipoglicemia) (Linee guida della Società Italiana di Diabetologia (SID) e dell’Associazione dei Medici Diabetologi (AMD), 2022). Il controllo del diabete riduce il rischio di complicanze croniche. A partire dal 2010, diverse associazioni di medici diabetologi hanno inserito l’emoglobina glicata come parametro valido di diagnosi di diabete (Standard Italiani per la cura del Diabete Mellito, AMD e SID, 2018).
Dati di epidemiologia
La prevalenza del diabete mellito di tipo 2 è età-specifica: inferiore al 3% fno ai 50 anni, supera il 9% tra i 50-69 anni per arrivare al 21% negli ultra 75enni (Ministero della Salute, 2021). Sulla base di questi dati il rischio di sviluppare il diabete mellito in Europa si attesta sul 30-40% (DECODE Study Group, 2003). Nel mondo, la stima di malati di diabete mellito nel 2021 è risultata pari a 536,6 milioni, valore destinato ad aumentare e che potrebbero arrivare a 642 milioni nel 2030 e 783 milioni nel 2045 (Ministero della Salute, 2021). Nella Regione europea dell’OMS le stime parlano di 62 milioni di malati, con 1,1 milioni di morti nel 2021, dato che colloca il diabete come quarta causa di morte nell’Unione Europea (Ministero della Salute 2021). In aumento anche la prevalenza di intolleranza al glucosio che in base alle stime passerà dal 10,2% al 10,9% (nel 2025). Secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2020 le persone con diabete diagnosticato sono oltre 3,5 milioni (il 90% ha diabete di tipo 2) con una prevalenza del 5,9% (+70% in 18 anni), a questi vanno aggiunti 1,5 milione di persone con diabete non diagnosticato e 2,6 milioni di persone con una condizione di disglicemia, ovverso intolleranza al glucosio o alterata glicemia a digiuno (Ministero della Salute, 2021 Consoli, 2013). Considerando la distribuzione geografica, la prevalenza di diabete aumenta spostandosi dal Nord al Sud Italia (Nord-ovest: 5,4%; Nord-est: 5,3%; Centro: 5,5%; Sud: 7,0%; isole: 6,7%) (dati Istat 2020) (Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie – Ccm, 2022). E’ stato inoltre osservato come il sesso femminile e l’appartenenza alle classi sociali più basse (indicatore di obesità e ridotta attività fisica) aumentino il rischio di diabete mellito.
Screening per il diabete di tipo 2
L’idea di ricorrere ad uno screening di “massa“ per evidenziare condizioni subcliniche di diabete mellito di tipo 2 non è raccomandato perchè dai dati disponibili, questo tipo di intervento clinico non è risultato influenzare la previsione del decorso della forma subclinica della malattia. Lo screening sembrerebbe utile nella prevenzione delle complicanze cardiovascolari e nei pazienti con intolleranza ai carboidrati potrebbe portare a cambiamenti dello stile di vita con ripercussioni significative sullo sviluppo del diabete mellito. I pazienti quindi che andrebbero valutati per un potenziale rischio di diabete sono quelli che presentano fattori di rischio noti (età avanzata, alterata glicemia a digiuno, intolleranza ai carboidrati, emoglobina glicata elevata in assenza di diabete, familiarità, etnia ad alto rischio, sedentarietà, sovrappeso/obesità, dislipidemia, ipertensione, malattia cardiovascolare, steatosi epatica non alcolica, condizioni di insulino-resistenza, pregresso diabete gestazionale o parto di neonato con peso >4 kg). In questi pazienti la diagnosi di diabete può essere fatta valutando la glicemia a digiuno oppure l’emoglobina glicata oppure il test da carico di glucosio (OGTT) che fornisce informazioni sul valore della glicemia due ore dopo il pasto. La presenza di valori di glucosio postprandiale alterati in pazienti con glicemia a digiuno nella norma aumenta il rischio di diabete. Spesso questa condizione si presenta in pazienti con malattia cardiovascolare. In uno studio clinico, la glicemia postprandiale superiore a 155 mg/dL 1 ora dopo il test da carico di glucosio in persone con tolleranza al glucosio nella norma è stata associata ad un aumento del rischio di diabete del 400% rispetto a chi era normotollerante al glucosio e aveva valori di glicemia postprandiale inferiori a 155 mg/dL. Valori di glucosio postprandiale superiore a 155 mg/dL sono risultati associati ad un maggior rischio di diabete anche rispetto a chi aveva alterata glicemia a digiuno e due fattori di rischio per diabete di tipo 2: ridotta sensibilità all’insulina e ridotta secrezione delle cellule beta del pancreas (Fiorentino et al., 2015). Nei pazienti con diabete di tipo 2 inoltre la glicemia postprandiale sembrerebbe correlarsi meglio e in maniera indipendente al rischio di eventi cardiovascolari rispetto alla glicemia a digiuno o all’emoglobina glicata (Cavalot et al., 2006). Gli studi clinici non hanno ancora però definito l’eventuale valore soglia della glicemia postprandiale in termini di prevenzione delle complicanze e se sia più importante il valore assoluto di glicemia postprandiale o di quanto aumenti la glicemia postprandiale (picco). Lo screening per il diabete dovrebbe iniziare a 45 anni e, in caso di esito normale, il test andrebbe ripeturo ogni 3 anni o meno in caso di disglicemia. I ricercatori hanno giudicato sufficientemente “sicuro” l’intervallo di tre anni verso le complicanze del diabete nel caso il paziente sviluppi la malattia in questo arco di tempo. Nei bambini e nei ragazzi in sovrappeso con due o più fattori di rischio per il diabete le linee guida raccomandano lo screening per il diabete di tipo 2 (Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito, AMD e SID, 2018).
Impatto del diabete sulla salute
Il diabete mellito è una malattia cronica con un impatto negativo sulla salute. I diabetici presentano un eccesso di mortalità pari al 30-40% rispetto ai non diabetici e le complicanze cardiovascolari riducono di 5-10 anni l’aspettativa di vita. Tra il 60% e l’80% dei pazienti diabetici infatti muore per cause cardiovascolari: infarto miocardico, ictus, scompenso cardiaco, morte improvvisa. Questi eventi sono da due a quattro volte più frequenti nelle persone con diabete rispetto a quelle senza, di pari età e sesso. Nel diabete mellito di tipo 2 il tempo di latenza che intercorre prima di arrivare ad una diagnosi certa della malattia è in media di 7 anni. In questo lasso di tempo il rischio cardiovascolare è sovrapponibile a quello del diabete diagnosticato (Standard Italiani per la Cura del Diabete Mellito, AMD e SID, 2018).
È stato stimato che nel 2030 il 69% dei decessi sarà causato da patologie croniche ma, mentre la mortalità per tumori e patologie cardiovascolari è in diminuzione, quella del diabete cresce dell’1,1% all’anno per gli uomini e del 1,3% per le donne. Secondo queste indicazioni il diabete è destinato a diventare la settima causa di morte nel mondo e la quarta nei paesi industrializzati, dopo le malattie cardio- e cerebrovascolari e i tumori a carico del tratto respiratorio. I dati dell’Italian Barometer Report 2021 indicano il diabete come causa responsabile del 3% delle morti totali in Italia (i dati preliminari del 2020 segnalano un aumento della mortalità in relazione alla pandemia COVID-19) per un torale di decessi pari a 21.637 nel 2019, cifra che corrisponde a circa 59 morti al giorno. (Italian Barometer Diabetes Report, 2021).
Alcuni studi suggeriscono una stretta associazione fra diabete mellito e dolore cronico. In uno studio clinico focalizzato per indagare prevalenza e caratteristiche del dolore nei malati di diabete, il dolore è risultato presente nel 48% dei pazienti, con una maggior prevalenza nelle donne rispetto agli uomini (60% vs 38%, p<0,001) e nei pazienti con diabete in di tipo 2 (31% vs 50,5% rispettivamente pazienti con diabete di tipo 1 e 2, p<0,01) (Coaccioli et al., 2014). Dolore cronico è stato riportato nel 35% dei pazienti, nell’80% dei quali si trattava di dolore articolare mentre nel 38% si trattava di dolore alla colonna vertebrale e nel 18% ai muscoli. Il dolore cronico era prevalente nel sesso femminile (74% donne e 460,4% uomini, p<0,001) e in caso di diabete di tipo 2 (37% vs 26%, rispettivamente pazienti con diabete di tipo 2 e di tipo 1). Il 27% dei pazienti diabetici il dolore non era trattato con farmaci; nei pazienti trattati, i farmaci più utilizzati risultavano essere i FANS (farmaci antinfiammatori non steroidei) (41%), quindi paracetamolo (30%), glucocorticoidi (3%) e analgesici oppioidi (2%) (Coaccioli et al., 2014).
Complicanze del diabete
Il diabete mellito può determinare complicanze acute e croniche. Le prime sono più frequenti nel diabete di tipo 1, le seconde nel diabete di tipo 2.
Le complicanze del diabete mellito sono causate dallo stato di iperglicemia cronica. Il controllo della malattia (valori di emoglobina glicata uguali o inferiori al 7%) riduce il rischio delle complicanze tardive del diabete. Due meccanismi importanti attraverso cui l’iperglicemia cronica provoca il danno d’organo sono la glicazione e la conversione del glucosio in sorbitolo. Con la glicazione il glucosio si lega a particolari proteine, tra cui anche l’emoglobina, alterandone la struttura e modificandone la funzionalità. Con la conversione del glucosio a sorbitolo aumenta la quantità di acqua nei tessuti per effetto osmotico dovuto alla maggiore permanenza del sorbitolo rispetto al glucosio nelle cellule con danni che possono essere permanenti.
Complicanze acute
Le complicanze acute associate a diabete mellito comprendono la chetoacidosi, l’iperosmolarità e l’ipoglicemia. La chetoacidosi è dovuta all’accumulo dei corpi chetonici, prodotti del metabolismo, e si associa a stanchezza, sete intensa, stimolo frequente ad urinare, perdita di peso. Se non trattata la chetoacidosi può provocare uno stato di coma con perdita di coscienza, disidratazione e gravi alterazioni ematiche. Il coma chetoacidosico è il rischio più grave associato al diabete mellito di tipo 1. L’iperosmolarità è dovuta ad una iperglicemia costante che comporta sonnolenza e stupore (perdita di coscienza parziale). L’ipoglicemia è causata da bassi valori di glicemia (<45-50 mg/dL equivalenti a 2,5-2,8 mmoli/L negli uomini; <35-40 mg/dL equivalenti a 1,9-2,2 mmoli/L nelle donne) e si manifesta con fame, nervosismo, pallore, aumento della salivazione (scialorrea) fino a tremori, convulsioni, tachicardia e coma (coma ipoglicemico). Nel paziente diabetico l’ipoglicemia rappresenta un rischio associato soprattutto al trattamento con insulina e con sulfoniluree a lunga durata d’azione (in quest’ultimo caso lo stato di ipoglicemia può durare a lungo, pertanto il paziente deve essere monitorato adeguatamente). L’ipoglicemia deve essere trattata rapidamente somministrando al paziente zucchero o alimenti ricchi in zuccheri oppure nei casi gravi glucosio in infusione endovena (50 ml di soluzione contenente glucosio al 50% in infusione rapida seguita dall’infusione di soluzioni di glucosio al 10% in modo da mantenere la glicemia nel range di normalità, pari a 3,9-5,5 mmoli/L).
Complicanze croniche
Nel diabete mellito di tipo 2 le complicanze più temute sono quelle tardive che si manifestano dopo diversi anni dalla diagnosi della malattia. Le complicanze tardive associate a diabete mellito comprendono complicanze microvascolari, che interessano occhio (retinopatia, causa principale di cecità nel diabetico) e rene (nefropatia) e complicanze macrovascolari, che interessano cuore e cervello (malattie cardiovascolari), associate a complicanze specifiche a carico dei vasi sanguigni (piede diabetico) e dei nervi periferici (neuropatia diabetica). Il ruolo della glicemia come fattore causale delle complicanze microvascolari è maggior di quello giocato nello sviluppo delle complicanze macrovascolari: in questo secondo ambito infatti intervengono anche altri fattori di rischio quali la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa e l’obesità (Gaede et al., 2016). Il diabete rappresenta inoltre una condizione di rischio in gravidanza per malformazioni congenite e mortalità perinatale.
Retinopatia diabetica
La retinopatia diabetica è causata da un danno al microcircolo degli occhi che comporta una diminuzione di flusso sanguigno e conseguente ischemia a livello della retina. La retinopatia diabetica può essere presente in due forme: semplice con lesioni di base e proliferativa, caratterizzata da neovascolarizzazione e cicatrizzazione, che possono essere responsabili di un’emorragia e del distacco della retina, con conseguente cecità. Questa complicanza interessa circa un terzo delle persone con diabete e ogni anno l’1% di queste è soggetta a forme severe di questa malattia (Italian Barometer Diabetes Report 2015).
Nefropatia diabetica
La nefropatia diabetica costituisce il fattore di rischio cardiovascolare più significativo associato al diabete mellito di tipo 2. La perdita di funzionalità renale inizia come microalbuminuria (albumina escreta paria 30-299 mg/24 ore) per evolvere a macroalbuminuria (albumina escreta =/>300 mg/24 ore) e quindi a insufficienza renale allo stadio terminale. Nel diabete di tipo 1 la microalbuminuria è considerata già nefropatia allo stadio iniziale; nel diabete di tipo 2 un elemento di rischio per lo sviluppo di nefropatia. In questa classe di pazienti la prevalenza di micro-macroalbuminuria si attesta sul 27-34% (studi osservazionali). Il diabete è presente in più del 20% dei pazienti con malattia renale terminale. Mantenere il controllo glicemico, ovvero valori di glicemia quanto più vicini ad una condizione di normoglicemia rallenta lo sviluppo di microalbuminuria e il deterioramente progressivo della funzionalità renale. Anche il controllo dei valori pressori ha un effetto positivo sulla nefropatia diabetica (Standard Italiani per la Cura del Diabete mellitoAMD e SID, 2018).
Neuropatia Diabetica
La neuropatia è un malfunzionamento della trasmissione nervosa causata dall’eccessivo introito di glucosio nella cellula nervosa per effetto dell’iperglicemia plasmatica. Le cellule nervose infatti non necessitano della presenza di insulina per assorbire il glucosio. Nel paziente diabetico, la neuropatia può coinvolgere il tatto (neuropatia sensoriale), gli arti inferiori (neuropatia periferica), il sistema nervoso involontario (neuropatia somatica, o autonomica o viscerale). La neuropatia diabetica periferica è strettamente correlata al piede diabetico (la neuropatia periferica aumenta di 20-40 volte il rischio di complicanze vascolari), mentre la neuropatia somatica comporta disfunzioni a carico degli organi interni come cuore (ipotensione, tachicardia), tratto gastrointestinale (diarrea), organi riproduttivi (impotenza). La disfunzione erettile legata a complicanze neuropatiche colpisce fino al 50 % degli uomini, con conseguente impatto sulla qualità della vita ed aumentato rischio di sviluppare depressione (Italian Barometer Diabetes Report 2015).
Piede diabetico
Il piede diabetico presenta una componente neuropatica e una componente vascolare. Il mal funzionamento dei nervi comporta una riduzione della sensibilità del piede che associata al restringimento dei vasi capillari favorisce una condizione di cattiva circolazione sanguigna, con secchezza e fragilità cutanea che puà portare facilmente alla formazione di fessurazioni e ulcere, anche in seguito a piccoli problemi (es. scarpe strette, uso di forbici). Nel paziente con diabete mellito i processi di cicatrizzazione sono più lenti e le ulcere tendono a infettarsi. L’infezione può aggravarsi ed estendersi con rischio di amputazione del piede. Il 15% dei diabetici esperimenta almeno una volta nella vita un’ulcera agli arti inferiori che porta ad amputazione nel 5% dei casi (AMD-SID, 2011). Questo valore aumenta con l’età (10% nelle persone oltre i 70 anni) e la complicanza raddoppia il tasso di mortalità delle persone con diabete (il 50% delle persone che subiscono amputazione muore entro i 5 anni) (Italian Barometer Diabetes Report 2015).
Complicanze macrovascolari
Le complicazioni macrovascolari del diabete mellito sono più frequenti di quelle microvascolari (rapporto 10:1) e possono anticipare di diverso tempo la manifestazione del diabete di tipo 2.
Un’associazione molto stretta è presente fra diabete mellito sia di tipo 1 che di tipo 2 e malattia cardiovascolare (Koivisto et al., 1996; Juutilainen et al., 2005). Quest’ultima rappresenta la prima causa di morte per le persone con diabete. E’ stato osservato che per ogni punto percentuale di incremento dell’emoglobina glicata si ha un determinato aumento del rischio cardiovascolare (“continuum“ tra iperglicemia e malattia cardiovascolare). L’impatto del diabete sul rischio cardiovascolare inizia prima della diagnosi della malattia: in condizioni di disfunzione asintomatica del metabolismo del glucosio si ha un aumento di 2 volte della mortalità e del rischio di infarto acuto del miocardio e di ictus (Cosentino et al., 2020). Il rischio di malattia cardiovascolare tende ad aumentare più nelle donne diabetiche (3-5 volte, odds ratio di mortalità: 11,4) che negli uomini (2-3 volte, odds ratio di mortalità: 6,2) rispetto alla popolazione in generale (Huxley et al., 2006). Nella popolazione generale di età media (circa 50 anni) il rischio di malattia coronarica è 3-5 volte più alto nell’uomo che nella donna (studio di Framingham) (Wilson et al., 1987). Nello studio INTERHEART, il cui obiettivo era quello di valutare il peso dei singoli fattori di rischio noti per l’infarto miocardico a livello globale (studio caso-controllo che ha coinvolto 52 paesi), il diabete è risultato aumentare di 2-3 volte il rischio di infarto miocardico sia negli uomini che nelle donne (Yusuf et al., 2004).
Nell’EURODIAB IDDM Complication Study, che ha incluso 3250 pazienti con diabete mellito di tipo 1 provenienti da 16 paesi europei, la prevalenza di malattia cardiovascolare è risultata pari al 9% negli uomini e al 10% nelle donne, aumentando con l’età (pazienti con 15-29 anni: 6%; pazienti con 45-59 anni: 25%) e con la durata del diabete. La prevalenza di malattia cardiovascolare è risultata correlare con alti livelli di trigliceridi e bassi livelli di colesterolo HDL, ma non con dose di insulina, livelli di emoglobina glicata, escrezione urinaria di albumina aggiustata per età e fumo (Koivisto et al., 1996). Poiché il rischio cardiovascolare rimane alto anche in condizioni di controllo glicemico adeguato, è probabile che che altri fattori, oltre all’iperglicemia, siano coinvolti nel danno tissutale, come la variabilità della glicemia, l’ipoglicemia e anomalie qualitative e funzionali dei lipidi plasmatici (Colom et al., 2021). Nei pazienti con diabete mellito di tipo 1 la presenza di nefropatia diabetica aumenta in modo significativo l’incidenza di malattia cardiovascolare (incidenza cumulativa a 40 anni: 43% vs 7% rispettivamente in pazienti con nefropatia e senza nefropatia, indipendentemente dal sesso) con un incremento del rischio di malattia coronarica e ictus di 10 volte (Tuomilehto et al., 1998).
In caso di diabete mellito di tipo 2 circa i due terzi dei pazienti vanno incontro nell’arco della loro vita ad almeno un evento cardiovascolare che può riguardare il cuore (infarto acuto, ischemia cronica, angina instabile), il cervello (ictus) o i vasi periferici (arteriopatia degli arti inferiori). Analogamente è stato riscontrato fra i pazienti con malattia cardiovascolare, che circa i due terzi presentano diabete o una condizione di disglicemia. Nel 75% dei pazienti con diabete mellito di tipo 2, la prima causa di morte è rappresentata da un evento cardiovascolare e il 60% circa dei pazienti ricoverati in unità coronariche è diabetico. L’associazione fra diabete mellito e malattia coronarica è stata evidenziata in numerosi studi clinici. Nei pazienti con diabete di tipo 2 e infarto miocardico è risultato aumentare sia il rischio di mortalità per tutte le cause (sovrapponibile per uomini e donne) sia il rischio di mortalità coronarica (aumento più marcato negli uomini). Nelle donne inoltre il “peso“ del diabete è risultato maggiore rispetto a quanto osservato negli uomini, mentre negli uomini ha impattato di più la storia pregressa di infarto miocardico (Hu et al., 2005). Il diabete mellito sembrerebbe far perdere quella sorta di protezione che le donne hanno, rispetto agli uomini, verso la mortalità coronarica. In una metanalisi relativa a 37 studi clinici, la mortalità coronarica era più alta nei pazienti con diabete rispetto a quelli senza (5,4% vs 1,6%) e il rischio relativo globale era più alto per le donne con diabete rispetto agli uomini con diabete (rischio relativo globale: 3,50 vs 2,06) (Huxley et al., 2006).
In uno studio osservazionale il rischio di complicanze vascolari nei pazienti diabetici è risultato più elevato in presenza di psoriasi. I pazienti arruolati nello studio sono stati divisi in due gruppi: con una o più diagnosi di psoriasi e senza psoriasi. Il gruppo di pazienti affetti da psoriasi ha mostrato una probabilità maggiore di sviluppare eventi microvascolari (hazard ratio pari a 1,14; hazard ratio o HR è una misura del rapporto di rischio), che risultava aumentare con la gravità della psoriasi (HR pari a 1,13 in caso di psoriasi lieve; HR pari a 1,16 in caso di psoriasi moderata/grave). Il secondo gruppo, pazienti diabetici non affetti da psoriasi, invece, ha sviluppato un aumento di rischio per patologie macrovascolari (HR pari a 1,13). Tale aumento è stato osservato anche nei pazienti diabetici con psoriasi lieve (HR pari a 1,15) ma non in quelli con psoriasi da moderata a grave (HR pari a1,10). Secondo i recercatori dello studio i pazienti diabetici affetti da psoriasi dovrebbero essere sottoposti ad uno screening più massiccio per le complicanze del diabete (Armstrong et al., 2015).
Sulla base degli studi disponibili, è emerso come la glicemia post-prandiale, valutata a 2 ore dal carico di glucosio, sia un fattore predittivo del rischio di mortalità per tutte le cause, cardiovascolare e da coronopatia, mentre la stessa osservazione non può essere fatta per la glicemia a digiuno. Mentre infatti la mortalità nei pazienti con elevata glicemia a digiuno si associa a livelli elevati anche per la glicemia post-prandiale, elevati livelli di quest’ultima sono predittivi di mortalità indipendentemente dalla concentrazione del glucosio a digiuno. E’ stato inoltre osservato come la somministrazione di acarbosio, un farmaco che agisce sulla glicemia post-prandiale sia in grado di ridurre il rischio cardiovascolare nei pazienti con intolleranza al glucosio (Chiasson et al., 2003; Hanefeld et al., 2004; Hanefeld et al., 1996).