Quali farmaci per Covid-19?
Nel momento in cui scriviamo (settembre 2021) non ci sono farmaci specifici per la terapia del COVID-19. Le autorità sanitarie hanno messo a punto dei protocolli per il trattamento domiciliare e ospedaliero del paziente basandosi sulle migliori evidenze scientifiche disponibili.
Trattamento domiciliare del paziente con COVID-19
La gestione del paziente a domicilio dipende dai sintomi manifestati. Se il paziente è asintomatico o con sintomi lievi (febbre, malessere, dolore muscoarticolare, diarrea, perdita del gusto o dell'olfatto) le raccomandazioni generali prevedono la vigile attesa, il ricorso a terapie sintomatiche (ad esempio l'uso del paracetamolo in caso di febbre), idratazione e nutrizione appropriata e la continuazione di eventuali terapie per malattie che il paziente già aveva (ad esempio terapie antipertensive, antiaggreganti etc.); da evitare supplementi vitaminici e integratori e trattamenti per areosol, questi ultimi potrebbero favorire la diffusione del virus nell'ambiente, mettendo a rischio eventuali conviventi.
L'Agenzia Italiana del Farmaco raccomanda (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020):
Trattamento ospedaliero del paziente con COVID-19
Sulla base delle evidenze scientifiche, la terapia raccomandata in ambito ospedaliero è rappresentata dall'uso di corticosteroidi (desametasone) ed eparine. Ai pazienti con un quadro di malattia critico, sono stati somministrati, in via sperimentale, farmaci approvati per altre patologie e farmaci ancora oggetto di ricerca scientifica. La scelta di procedere in questo modo è stata dettata dalla necessità di trovare possibili soluzioni per arginare la virulenza e la letalità dell'infezione da SARS-CoV-2.
Le raccomandazioni dell'Agenzia Italiana del farmaco prevedono (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020d e 2021):
Ossigenoterapia
Nei pazienti con COVID-19 e difficoltà respiratoria l'ossigenoterapia rappresenta il trattamento standard. Il dispositivo per misurare la quantità di ossigeno nel sangue è il saturimetro, che rileva la quantità di ossigeno legato all'emoglobina (SpO2, saturazione periferica di O2). Quando SpO2 scende sotto un determinato valore (96%), la quantità di ossigeno presente nell'aria (21%) non è più sufficiente a soddisfare il fabbisogno dell'organismo. L'ossigenoterapia serve per incrementare la quantità di ossigeno normalmente inspirata in modo da aumentare la pressione parziale dell'ossigeno, PaO2, negli alveoli e nel sangue, con effetti positivi sull'atto respiratorio e sul cuore: riduce lo sforzo respiratorio e lo sforzo cardiaco.
L'ossigenoterapia standard aumenta del 3-4% la quantità di ossigeno inspirata: il gas viene erogato a basso flusso da una bombola, miscelato con l'aria e inspirato utilizzando una maschera o le cannule nasali. L'ossigenoterapia standard può essere erogata in regime domiciliare.
Quando l'ossigenoterapia standard non è più sufficiente, è necessario procedere con l'ossigeno terapia ad alto flusso con cannule nasali (HFNO) oppure con la ventilazione meccanica. Entrambi i trattamenti richiedono il ricovero ospedaliero. La ventilazione meccanica aiuta o sostituisce la funzione dei muscoli respiratori, può essere non invasiva o invasiva. La ventilazione non invasiva utilizza una maschera o un casco. La ventilazione invasiva avviene per intubazione endotracheale; in questo caso il paziente è sedato. In alcuni casi per favorire l'ossigenazione dei polmoni è indicata la posizione prona del paziente.
Farmaci approvati o in sperimentazione per la terapia anti COVID-19
Di seguito un elenco dei principali farmaci approvati o sperimentali per il trattamento dei pazienti COVID-19:
Anticorpi monoclonali
Anakinra
Anakinra è un anticorpo monoclonale utilizzato in reumatologia per inibire la risposta immunitaria. Nello specifico questo farmaco inibisce le citochine proinfiammatorie interleuchina (IL)-1alfa e 1beta. Nei pazienti con COVID-19 è stato utilizzato con un certo successo nel trattamento della sindrome da attivazione macrofagica. Questa sindrome è caratterizzata da una iperattivazione dei macrofagi, per cui queste cellule, che appartengono al sistema immunitario, “attaccano” cellule che normalmente non sono un loro bersaglio. Il farmaco è somministrato per via sottocutanea. A settembre 2021, l’agenzia regolatoria italiana, AIFA, ha reso disponibile anakinra per il trattamento in regime ospedaliero del paziente con COVID-19 (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2021d).
Bamlanivimab
Bemlanivimab è un anticorpo monoclonale autorizzato in via emergenziale in Italia a marzo 2021 (Detrmina AIFA n 58 del 9 marzo 2021) in monoterapia e in associazione ad un altro anticorpo monoclonale umano, etesevimab (Ministero della Salute, 2021). Successivamente l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha revocato l'autorizzazione per l’uso in monoterapia perchè non ha più giudicato positivo il rapporto benefici/rischi.
Bemlavinimab è un anticorpo monoclonale diretto contro la proteina spike del virus SARS-CoV-2, autorizzato nei pazienti positivi al test per COVID-19 ad alto rischio di progressione verso una forma grave di malattia.
Etesevimab
Etesevimab, come bamlanivimab, è un anticorpo monoclonale umano diretto contro la proteina spike del virus SARS-CoV-2. E' stato autorizzato dall'AIFA, in via temporanea, in associazione a bamlanivimab (700 mg bamlanivimab/1400 mg etesevimab) per pazienti COVID-19 in fase iniziale di malattia ma a rischio di progressione verso forme severe di malattia (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2021).
L'associazione bamlanivimab/etesevimab deve essere somministrata entro pochi giorni dalla positività al test per COVID-19 o dalla comparsa dei sintomi della malattia perchè per essere “efficace” è necessario che la carica virale sia alta. Uno dei limiti principali legati all'uso di bemlanivimab/etesevimab è la necessità di ricovero ospedaliero, la somministrazione infatti avviene per infusione endovena lenta e richiede il monitoraggio continuo del paziente per eventuali reazioni allergiche o legate all'infusione.
In uno studio di fase 2-3 che ha confrontato l’associazione etesevimab/bamlanivimab e la monoterapia con bamlanivimab contro placebo, in pazienti con almeno un fattore di rischio per COVID-19 grave, una riduzione statisticamente significativa della carica virale dopo 11 giorni (esito clinico principale) è stata osservata solo con l'associazione dei due anticorpi monoclonali. La variazione della carica virale, misurata in scala logaritmica, è risultata pari a -3,72 con bamlanivimab 700 mg, -4,08 con bamlanivimab 2800 mg, -3,49 con bamlanivimab 7000 mg, -4,37 con bamlanivimab/etesevimab e -3,80 con placebo. La percentuale di pazienti ricoverati per COVID-19 o arrivati in prontosoccorso è risultata pari a 5,8% (9 casi) nel gruppo placebo, all'1% (1 caso) nel gruppo in monoterapia con bamlanivimab al dosaggio più basso, all'1,9% (2 casi) con bamlanivimab a dosaggio intermedio, a 2% (2 casi) con bamlanivimab a dosaggio più alto e a 0,9% (1 caso) con la combinazione dei due anticorpi. Reazioni di ipersensibilità sono state osservate in 6 pazienti trattati con bamlanivimab in monoterapia, in 2 pazienti trattati con l'associazione farmacologica e in 1 paziente nel gruppo placebo (Gottlieb et al., 2021).
Casirivimab/Imidevimab
Anche Casirivimab e Imidevimab sono anticorpi monoclonali diretti verso la proteina spike del virus SARS-CoV-2. L'Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato la combinazione di questi due anticorpi nello stesso setting di pazienti candidati all'uso di bamlanivimab con etesevimab: pazienti positivi al test per COVID-19 asintomatici o paucisintomatici, ma a rischio di forme gravi di malattia. La dose raccomandata per i due anticorpi è di 1200 mg ciascuno, da somministrare in un'unica infusione endovenosa. Come per bamlanivimab/etesevimab, anche la somministrazione di casirivimab/imidevimab necessita di una struttura adeguata per poter intervenire in caso di eventi avversi potenzialmente gravi (reazioni all'infusione, reazioni di ipersensibilità) (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2021a).
Lenzilumab
Lenzilumab è un anticorpo monoclonale ricombinante diretto contro il fattore stimolante le colonie di granulociti-macrofagi (GM-CSF). L'uso di lenzilumab in pazienti con grave polmonite da COVID-19 si basa sul ruolo attribuito al fattore GM-CSF nel favorire la sindrome da rilascio eccessivo di citochine, sindrome simile alla condizione nota come “tempesta delle citochine”, riscontrata nei pazienti con gravi forme di COVID-19. La somministrazione dell’anticorpo monoclonale (tre dosi da 600 mg ogni 8 ore) ha determinato un miglioramento clinico più rapido (5 vs 11 giorni, rispettivamente in pazienti trattati e non trattati) in una percentuale maggiore di pazienti (11 su 12 pazienti nel gruppo trattato vs 22 su 27 pazienti nel gruppo non trattato). La percentuale di pazienti con sindrome da distress respiratorio (saturazione di ossigeno/frazione di ossigeno inspirato < 315 mmHg) è stata significativamente ridotta nel tempo nel gruppo trattato rispetto a quello non trattato (p<0,001). Solo i pazienti trattati con lenzilumab hanno evidenziato una riduzione significativa dei marker di infiammazione (proteina C reattiva e interleuchina 6) e di gravità di malattia (conta assoluta dei linfociti). L’anticorpo monoclonale è risultato ben tollerato (nessun evento avverso attribuile all'anticorpo) (Temesgen et al., 2020).
Sotrovimab (VIR-7831)
Sotrovimab (anche noto come VIR-7831) è un anticorpo monoclonale umano di seconda generazione, diretto contro la proteina virale spike. Frutto della ricerca di GSK e Vir Biotechnology, VIR-7831 deriva da un anticorpo (S309) identificato nel 2003 in un paziente convalescente per SARS; l'anticorpo lega un antigene (epitopo) della proteina spike altamente conservato perchè comune sia al coronavirus della SARS sia a quello di COVID-19. VIR-7831 costituisce una versione “ingegnerizzata” di S309, caratterizzato da una emivita più lunga (Tuccori et al., 2020).
Dati preliminari di uno studio, condotto in pazienti ambulatoriali ad alto rischio di progressione verso forme severe di COVID-19, indicano una riduzione del tasso di ospedalizzazione/morte superiore all'85%. Ad aprile 2021, l'Agenzia europea dei medicinali (EMA) ha avviato una rolling review di VIR-7831 per il trattamento dei pazienti COVID-19 in seguito alla quale ha fornito le raccomandazioni per il suo utilizzo come trattamento di emergenza, prima della sua autorizzazione all’immissione in commercio nella UE (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2021b). A maggio dello stesso anno, l’anticorpo monoclonale ha ricevuto l’autorizzazione per l’uso emergenziale dall’Agenzia americana.
Tocilizumab
Il tocilizumab (commercializzato in Italia con il nome di RoActemra) è un anticorpo monoclonale approvato nel trattamento dell'artrite reumatoide e nella sindrome da rilascio di citochine indotta dai linfociti CAR-T (linfociti ingegnerizzati che presentano un recettore di sintesi, non esistente in natura). Il tocilizumab è un antagonista del recettore dell'interleuchina 6 (IL-6), citochina che gioca un ruolo strategico nell'innesco nel processo infiammatorio. In diversi studi clinici sul COVID-19 elevati livelli di interleuchina 6 sembrano correlare con un peggioramento più rapido della malattia.
In Italia, l’agenzia regolatoria ha inserito il tocilizumab tra le opzioni terapeutica per il trattamento del paziente COVID grave, in rapido peggioramento per il fabbisogno di ossigeno (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2021e). Negli studi di riferimento, sebbene l’interpretazione e il confronto dei dati risulti difficile per le differenze dei protocolli - popolazione studiata, gravità della malattia, terapie concomitanti e tempi differenti per l’inizio della terapia con tocilizumab – è possibile osservare un trend positivo nell’uso del tocilizumab nei pazienti con COVID-19 grave (necessità di ossigeno in rapido aumento) e/o con indici di infiammazione elevati. I pazienti trattati con tocilizumab hanno mostrato un minor rischio di progressione di malattia, un minor rischio di dover ricorrere a ventilazione meccanica e/o di mortalità e una maggior probabilità di essere dimessi dall’ospedale (Recovery Collaborative Group, 2021; Soin et al., 2021; Gordon et al., 2021; Veiga et al., 2021;Salama et al., 2021; Selveraj et al., 2021; Ghosn et al., 2021; khan et al., 2021; Kim et al., 2020; Rosas et al., 2020; Hermine et al., 2020; Salvarani et al., 2020; Stone et al., 2020).
Anticorpi da plasma iperimmune
L'uso di plasma iperimmune, cioè ricco di anticorpi specifici contro una determinata infezione, è stata una strategia adottata in gravi infezioni quali SARS, MERS e Ebola.
Anche per la pandemia COVID-19 l'uso di plasma prelevato da pazienti infettati e guariti è stato sperimentato in diversi paesi tra cui l'Italia. I primi dati relativi all'uso di plasmaterapia per COVID-19 provengono dalla Cina (16 pazienti) e hanno suggerito un beneficio clinico potenziale in assenza di tossicità apparente. Successivamenti sono stati eseguiti diversi studi, su piccoli gruppi di pazienti, e revisioni di studi che però hanno fornito un grado di certezza limitato in termini di efficacia (riduzione della mortalità) e sicurezza per questo tipo di intervento (O'Donnell et al., 2021; Klassen et al., 2021; Bansal et al., .2021; Peng et al., 2021). Nello studio clinico TSUNAMI, promosso dall’Agenzia Italiana del farmaco e dall’Istituto Superiore di Sanità, l’uso di plasma iperimmune associato alla terapia standard non ha portato benefici clinici aggiuntivi in termini di mortalità o necessità di ventilazione meccanica invasiva in pazienti con polmonite da COVID-19 e insufficienza respiratoria da lieve a moderata. Un trend positivo, che non ha raggiunto significatività statistica, è stato osservato solo nei pazienti in uno stadio molto precoce della malatia con funzionalità respiratoria normale (rapporto pO2/FiO2 > 300) (Agenzia Italiana del farmaco – AIFA, 2021f).
L'uso di plasma iperimmune presenta diverse limitazioni, la più importante delle quali è la disponibilità di materia prima a cui si aggiungono la variabilità della concentrazione di anticorpi neutralizzanti nei donatore, il rischio di eventi avversi (reazioni allergiche, possibile trasmissione di altre malattie infettive, effetti pro-coagulanti) e il rischio di esiti falsi negativi al tampone diagnostico (secondo uno studio clinico il tasso di pazienti con negatività del tampone ma ancora infetti ammonterebbero a circa il 4%) (Long et al., 2020; Poli, 2020).
Antibiotici
La terapia antibiotica serve per trattare eventuali sovrainfezioni che possono svilupparsi nei pazienti affetti da COVID-19. Gli antibiotici utilizzati sono i beta-lattamici o i sulfamidici di terza generazione, associati ad azitromicina. I risultati preliminari di uno studio condotto in pazienti con COVID-19 lieve-moderato a rischio di progressione ha evidenziato, rispetto al placebo, una riduzione dell'85% del tasso di ospedalizzazione.
Antivirali
Darunavir
Il darunavir è un inibitore delle proteasi approvato per il trattamento dell'infezione da HIV; in vitro ha dimostrato attività anche verso il virus SARS-CoV-2. E’ somministrato insieme a cobicistat, inibitore dell'enzima CYP3A4 la cui funzione è di aumentare l'esposizione sistemica dell'antivirale. Gli studi clinci relativi all’impiego di darunavir in pazienti con COVID-19 hanno dato esiti contrastanti. Uno studio clinico osservazionale condotto in Italia, in pazienti con polmonite da COVID-19, non ha evidenziato benefici terapeutici associati alla combinazione darunavir/cobicistat, anzi i pazienti trattati (115) hanno evidenziato, rispetto al gruppo di controllo (158), un tasso più elevato di mortalità (25,2% vs 10,1%, p<0,001) e di esito composito per ventaliazione meccanica e mortalità (37,4% vs 25,3%, p=0,03) (Milic et al., 2021). Viceversa, in un altro studio di dimensioni minori, condotto in Corea del Sud, la somministrazione di darunavir/cobicistat a pazienti con COVID-19 (14) ricoverati in terapia intensiva è stata associata ad un tasso di mortalità inferiore rispetto al gruppo di pazienti di controllo (28) (Kim et al., 2020). Altri due studi, uno condotto in Cina, in aperto e in pazienti con COVID-19 lieve, e l'altro in Italia, in pazienti ospedalizzati per polmonite da COVID-19, non hanno evidenziato benefici per darunavir/cobicistat sul tasso di mortalità (Nicolini et al., 2020; Chen et al., 2020a).
Sulla base dei dati clinici disponibili, l'Agenzia Italiana del Farmaco ha dato il via libera all'uso di darunavir/cobicistat esclusivamente negli studi clinici, in alternativa a lopinavir/ritonavir, quando quest'ultimo non è tollerato (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020e).
Favipiravir
Il favipiravir è un antivirale autorizzato in Giappone nel 2014, con il nome di Avigan, per il trattamento di infezioni causate da virus influenzali nuovi o riemergenti, quando altri antivirali non hanno avuto successo (terapia non di prima linea). Il farmaco non è approvato né in Italia né negli USA.
Il favipiravir è un inibitore della polimerasi virale; in vitro ha evidenziato un'azione diretta contro i virus a RNA a concentrazioni che dipendevano dal tipo di virus. Nel caso del virus SARS-CoV-2, la dose efficace, estrapolata per un uso clinico, risulta spostata verso i valori più alti dell'intervallo terapeutico (dose di carico di 2400-3000 mg ogni 12 ore per due volte, seguita dalla dose di mantenimento di 1200-1800 mg ogni 12 ore) (Sanders et al., 2020).
Favipiravir è stato confrontato con la combinazione lopinavir/ritonavir (utilizzata in via sperimentale, ma non autorizzata per il trattamento del COVID-19) in uno studio, non controllato, pubblicato in via preliminare prima della revisione di esperti, relativo ad un piccolo numero di pazienti con malattia COVID-19 non grave, manifestatasi nei sette giorni precedenti all'arruolamento. Tutti i pazienti hanno ricevuto interferone alfa-1b per via inalatoria (aerosol). Sulla base dei dati estrapolabili dallo studio, il favipiravir è sembrato aumentare la velocità di eliminazione del virus dal sangue e migliorare alcuni aspetti radiologici. Non sono però disponibili dati di efficacia clinica e sull'andamento dell'infezione. Poiché non è stata ancora definita la correlazione tra concentrazione di virus nel sangue (titolo virale) e decorso della malattia (prognosi clinica), non è possibile sapere se gli effetti del favipiravir sul titolo virale abbiano o no rilevanza clinica. Lo studio, inoltre, presenta un'altra limitazione che potrebbe alterarne i risultati finali: non è uno studio controllato e questo potrebbe comportare delle distorsioni nella selezione dei pazienti.
In un secondo studio prospettico, randomizzato, multicentrico in aperto, che ha arruolato 240 pazienti, il favipiravir è stato confrontato con umifenovir in pazienti con COVID-19 di grado moderato-severo. Nei pazienti con malattia moderata, il tasso di guarigione clinica è risultato significativamente più alto con favipiravir (71,43% vs 55,86%, p=0,0199). Anche il tempo necessario per ridurre febbre e tosse (esito clinico secondario), è risultato più breve con favipiravir rispetto a umifenovir (p<0,0001). Nessuna differenza tra i due farmaci è stata invece osservata per il ricorso a ossigenoterapia o ventilazione meccanica non invasiva (Sanders et al., 2020; Chen et al., 2021).
Successivamente sono stati attivati diversi altri studi clinici (almeno 18 registrati sul Chinese Clinical Trial Registry (ChiCTR) e sull' International Clinical Trials Registry Platform (WHO ICTRP), in cui favipiravir è stato valutato in monoterapia o in associazione ad altri farmaci (interferone alfa, baloxavir marboxil, clorochina fosfato) nel trattamento di pazienti con COVID-19 (Ghasemnejad-Berenji, Pashapour, 2021). Nonostante gli studi clinici attivati, mancano dati certi di efficacia e sicurezza (rapporto rischi/benefici): la Corea del Sud ad esempio non ha incluso il favipiravir tra i farmaci da utilizzare per COVID-19, mentre altri stati ta cui Giappone, Russia, Arabia Saudita lo hanno incluso tra le opzioni terapeutiche per i pazienti con malattia di grado lieve-moderato (Joshi et al., 2021). Un altro aspetto che suscita perplessità nella comunità scientifica riguarda il meccanismo d’azione. Il favipiravir è un inibitore della polimerasi virale che aumenta il tasso di mutazioni nel genoma virale riducendone la vitalità (modelli animali) (Arias et al., 2014). La comparsa di mutazioni però può portare anche alla formazioni di ceppi virali resistenti al farmaco che potrebbero essere anche più aggressivi (Goldhill et al., 2018; Ormond et al., 2017; Delang et al., 2014). Il favipiravir inoltre è risultato teratogeno in modelli animali.
Interferone alfa
L'interferone alfa, antivirale ad ampio spettro, ha evidenziato in vitro attività inibitoria sulla riproduzione del nuovo coronavirus SARS-CoV-2. Sebbene non ci siano studi clinici relativi all'uso dell'interferone nel trattamento dell'infezione da SARS-CoV-2, e parte degli esperti non reputi opportuno inserire il farmaco tra quelli raccomandati, durante la prima ondata della pandemia, la Cina ha inserito l'interferone alfa nelle linee guida della Commissione nazionale per la salute (NHC) per la terapia del paziente adulto COVID-19, alla dose di 5 milioni di unità due volte al giorno per inalazione (aerosol) per un massimo di 10 giorni (Dong et al., 2020).
Lopinavir/ritonavir
L'associazione lopinavir/ritonavir è approvata per il trattamento della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) causata dal virus HIV-1. La combinazione farmacologica ha evidenziato attività antivirale in vitro verso i coronavirus responsabili delle infezioni SARS e MERS e verso il virus della SARS in studi clinici preliminari (Sanders et al., 2020; Chu et al., 2004). Nel trattamento di COVID-19, l’associazione lopinavir/ritonavir non ha dato i risultati clinici sperati sia quando somministrata in fase precoce di malatia sia in stadio avanzato (pazienti sottoposti a ossigenoterapia o ventilazione meccanica) (Recovery Collaborative group, 2021; Li et al., 2020; Alhazzani et al., 2020; Alhumaid et al., 2020; Cao et al., 2020). I farmaci in questione inoltre possiedono un potenziale di interazione farmacologica significativo e sono associati a disturbi gastrointestinali (fino al 28% dei pazienti) e ad epatotossicità (2-10%). Questi effetti collaterali potrebbero essere esacerbati nei pazienti COVID-19, dato che il 20-30% di questi pazienti presenta un aumento delle transaminasi epatiche (Sanders et al., 2020).
Durante la prima ondata della pandemia (febbraio 2020) la Cina aveva inserito l'associazione lopinavir/ritonavir come possibile opzione terapeutica per COVID-19 (paziente adulto: di 400/100 mg due volte al giorno per un massimo di 10 giorni) (Dong et al., 2020). Successivamente anche l'Agenzia Italiana del Farmaco aveva autorizzato l'impiego off-label del farmaco, poi limitato ai soli studi clinici (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020f).
Remdesivir
Il remdesivir è un farmaco antivirale studiato in vitro e in vivo per il trattamento delle infezioni da coronavirus SARS e MERS e per il trattamento dell'infezione da virus Ebola.
Remdesivir è stato autorizzato dall'AIFA con il nome commerciale Veklury per il trattamento dei pazienti adulti o adolescenti con almeno 12 anni (peso corporeo =/> 40 kg) con polmonite da COVID-19, trattati con ossigenoterapia non invasiva all'inizio del trattamento. A fine novembre 2020, l'AIFA ha circoscritto, con una nota, l'uso di ramdesivir a casi selezionati di pazienti (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020g).
Dopo l'osservazione di effetti clinici positivi in pazienti con COVID-19 trattati con remdesivir, alcuni paesi, tra cui Cina, Usa e Italia, hanno dato il via libera per la sperimentazione clinica. Nel mese di aprile 2020, ancora in pieno lockdown, l'Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) aveva raccomandato l'uso di remdesivir per uso compassionevole per il trattamento dell'infezione da SARS-CoV-2 (Agenzia Italiana del Farmaco- AIFA, 2020b). A maggio è arrivata l'autorizzazione anche da parte dell'Agenzia regolatoria americana (Food and Drug Administration – FDA, 2020) e successivamente l'EMA e l'AIFA hanno approvato l'antivirale con autorizzazione condizionata.
Il remdesivir appartiene alla classe degli analoghi nucleotidici. È un profarmaco: metabolizzato in vivo nella forma attiva, l’analogo dell'adenosina trifosfato, interferisce con la replicazione dell'RNA virale. Negli studi clinici ha evidenziato una buona tollerabilità in infusione endovenosa, nell'intervallo terapeutico 3-225 mg, una cinetica di primo ordine (lineare) e un'emivita intracellulare superiore alle 35 ore. Dopo somministrazione ripetuta il remdesivir è stato associato ad un aumento reversibile delle transaminasi epatiche. Il farmaco non è raccomandato nei pazienti con velocità di filtrazione glomerulare inferiore a 30 ml/min (Sanders et al., 2020).
Nelle condizioni di utilizzo approvate - il remdesivir non deve essere utilizzato in pazienti sottoposti a ventilazione meccanica o ossigenazione extracorporea a membrana (ECMO) per assenza di benefici clinici -, i dati di letteratura non sono univoci, non tutti gli studi infatti hanno evidenziato una riduzione del tempo di recupero e della mortalità (Beigel et al., 2020;.Goldman et al., 2020; Spinner et al., 2020). L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha formulato una raccomandazione “negativa debole” sull'uso del remdesivir nei pazienti con COVID-19 indipendentemente dalla gravità della malattia (Agenzia Italiana del farmaco – AIFA, 2020d); in Italia l'AIFA ne prevede l'uso in casi selezionati di pazienti e dopo un'attenta analisi del rapporto tra rischi e benefici.
Ribavirina
La ribavirina è approvata per il trattamento dell'epatite C in associazione a interferone. Antivirale ad ampio spettro, inibisce l'RNA-polimerasi RNA-dipendente, enzima necessario alla replicazione del genoma virale.
La ribavirina è utilizzata off label (indicazioni non approvate, ma supportate da evidenze scientifiche) nella profilassi e trattamento delle febbri emorragiche virali (febbre di Lassa e febbre Congo-Crimea), nel trattamento delle infezioni da Adenovirus in pazienti adulti e pediatrici immunocompromessi e nel trattamento dell'infezione disseminata da Papilloma Virus (HPV) in associazione a PEG-interferone; controverso è il suo utilizzo nel trattamento dell'influenza di tipo A e B.
Nel trattamento della SARS, l'analisi di 30 studi clinici relativi all'uso della ribavirina ha dato esiti inconcludenti in 26 studi e evidenze di tossicità in 4 studi (anemia emolitica: > 60% dei pazienti; aumento delle transaminasi: 75% dei pazienti) (Stockman et al., 2006). Nel trattamento della MERS, in terapia combinata con interferone, non sono stati dimostrati effetti sugli esiti clinici né sulla clearance virale (nel trial più ampio, il 40% dei pazienti ha richiesto trasfusioni di sangue) (Arabi et al., 2020). La somministrazione per via inalatoria nel trattamento delle infezioni da coronavirus non sembra offrire vantaggi aggiuntivi rispetto alla somministrazione parenterale o orale sulla base dell'esperienza nel trattamento del virus respiratorio sinciziale (Sanders et al., 2020).
Negli studi in vitro contro il virus SARS-CoV-2 la ribavirina ha inibito la replicazione virale a concentrazioni elevate, suggerendo per l'attività clinica la necessità di impiegare un dosaggio alto (1,2-2,4 g per via orale ogni 8 ore), in associazione ad altri farmaci. In uno studio clinico non controllato né randomizzato (62 pazienti), l'associazione di ribavirina, nitazoxanide, ivermectina e zinco è stata associata ad una più rapida negativizzazione del tampone nasofaringeo rispetto al trattamento sintomatico standard (Elalfy et al., 2021). In uno studio retrospettivo condotto in pazienti ospedalizzati per COVID-19 nella città cinese di Wuhan tra il 1 febbraio 2020 e il 10 marzo 2020, il trattamento con ribavirina (68 pazienti) non ha evidenziato differenze rispetto al gruppo di confronto (140 pazienti) in termini di tempo per il miglioramento clinico (esito clinico principale), mortalità, tempo di soppravvivenza, durata della degenza ospedaliera e tempo intercorso fino a negativizzazione del tampone faringeo (esiti clinici secondari) (Gong et al., 2021). In un altro studio di coorte retrospettivo, condotto sempre in Cina nei primi mesi del 2020 in pazienti ospedalizzati per COVID-19, la somministrazione di ribavirina/interferone alfa non ha modificato la mortalità a 30 giorni, ma è risultata associata ad una maggiore probabilità di un ricovero ospedaliero superiore ai 15 giorni (Li et al., 2021). Altri studi clinici, la maggior parte dei quali di piccole dimensioni, hanno dato esiti non concludenti (Eslami et al., 2020; Kasgari et al., 2020; Huang et al., 2020; Tong et al., 2020).
Nonostante i dati di letteratura abbiano evidenziata scarsa efficacia verso i coronavirus e una certa tossicità, durante la prima ondata di pandemia la Cina aveva inserito la ribavirina nelle linee guida per la terapia anti-COVID-19 (dose raccomandata per il paziente adulto: 500 mg per infusione endovenosa, 2-3 volte al giorno, in associazione a interferone alfa oppure a lopinavir/ritonavir, per un massimo di 10 giorni di terapia) (Dong et al., 2020).
Clorochina, idrossiclorochina
La clorochina e il derivato idrossiclorochina sono farmaci approvati per la profilassi e il trattamento della malaria, dell'amebiasi extraintestinale, dell'artrite reumatoide e del lupus eritematoso.
In vitro, questi farmaci hanno evidenziato attività antivirale ad ampio spettro verso diversi virus a RNA (HIV, virus della SARS, virus A e B dell'influenza, poliovirus, virus dell'epatite A e C, virus dell'influenza A H5N1, virus Chikungunya , virus Dengue, Zika virus, virus della febbre di Lassa, Hendra e Nipah virus, virus della febbre emorragica del Congo-Crimea e Ebola virus) e virus a DNA (virus dell'epatite B ed Herpes simplex) (Devaux et al., 2020; Savarino et al., 2006). La clorochina è risultata efficace in vitro e in modelli animali anche verso SARS-Cov-2 (Keyaerts et al., 2009; Keyaerts et al., 2004; Savarino et al., 2003).
Gli studi condotti per comprendere l’attività antivirale della clorochina hanno individuato diversi possibili meccanismi a seconda del microrganismo considerato. Uno dei meccanismi principali sembra essere la capacità di interferire con il rilascio del virus nella cellula ospite riducendo l’acidità dell’endosoma. L'endosoma è una vescicola che si forma per invaginazione della membrana cellulare quando il virus vi aderisce e che funziona come mezzo di trasporto del virus all’interno della cellula. La fusione della membrana dell’endosoma con quella virale provoca la fuoriscita nel citoplasma cellulare del genoma virale che può così iniziare a replicarsi. La fusione delle due membrane è condizionata dal valore del pH all'interno dell'endosoma: l'innalzamento del pH indotto dalla clorochina blocca il processo (Devaux et al., 2020; Al-Bari, 2017; Yan et al., 2013).
La clorochina può inibire anche la sintesi dell'acido sialico, uno zucchero presente sui recettori trasmembrana cellulari importante per il riconoscimento di ligandi esterni. L'interferenza esercitata dalla clorochina sulla sintesi dell'acido sialico (glicosilazione) potrebbe spiegare l'attività virale ad ampio spettro del farmaco (Olofsson et al., 2005). Nel caso del coronavirus della SARS, i ricercatori hanno attribuito l’efficacia antivirale in vitro della clorochina ad un deficit nella glicosilazione dell’enzima ACE2 (enzima 2 di conversione dell'angiotensina) che il virus della SARS, e quello di COVID-19, utilizzano come porta di ingresso nella cellula (Devaux et al., 2020).
Altro meccanismo d’azione della clorochina è la capacità di interferire con l'assemblaggio delle proteine virali per cui le particelle virali neoformate non sono più infettive (Devaux et al., 2020).
Gli effetti della clorochina sul pH dell’endosoma sembrano compromettere anche il riconoscimento dell'antigene virale da parte delle cellule dendritiche del sistema immunitario (il processo richiede infatti bassi valori di pH dell'endosoma). Secondo altri studi invece la clorochina sembra favorire il trasporto degli antigeni virali nel citoplasma delle cellule dendritiche potenziando la risposta dei linfociti T citotossici (linfociti T CD8+) contro gli antigeni virali. In alcuni modelli virali la clorochina ha inibito la via di segnalazione cellulare utilizzata dai virus per dare inizio alla loro replicazione e il rilascio di citochine pro-infiammatorie (inibizione del rilascio di interleuchina (Il)-1 beta, IL-6, IL-1, TNF-alfa, interferone) (Devaux et al., 2020).
Sebbene in vitro la clorochina e l'idrossiclorochina abbiano evidenziato attività antivirale, i dati clinici verso il virus SARS-Cov-2 sono limitati. L’uso sperimentale (off label) nel trattamento di COVID-19 si è basato su studi preliminari che avevano suggerito un potenziale ruolo terapeutico (Gautret et al., 2020; Chen et al., 2020a). Tale ruolo è stato successivamente drasticamente ridotto.
Sebbene nella maggior parte dei pazienti trattati per COVID-19 la clorochina e l’idrossiclorochina siano stata ben tollerati, entrambi gli antimalarici possono causare (< 10% dei pazienti) prolungamento dell'intervallo Qtc, ipoglicemia, disturbi neuropsichiatrici. Ci sono inoltre dati di letteratura che riportano, oltre a cardiomiopatia, una retinopatia maculare dipendente dalla dose cumulativa assunta di antimalarico (Cubero et al., 1993; Bernstein, 1991; Retliff et al., 1987).
Nella prima fase di pandemia, la Cina aveva inserito la clorochina nelle linee guida per il trattamento di COVID-19 basandosi su una prima esperienza in 100 pazienti ospedalizzati che avevnoa manifestato minor esacerbazione della polmonite, esiti radiologici polmonari migliori, una più rapida negativizzazione virale e una minor durata della malattia a fronte di una buona tollerabilità del farmaco (assenza di effetti collaterali gravi) (Dong et al., 2020; Gao et al., 2020).
In Italia i medici hanno utilizzato in via emergenziale l'idrossiclorochina invece della clorochina perché caratterizzata da una tollerabilità maggiore (ldose di idrossiclorochina somministrata ai pazienti con COVID: 200 mg due volte al giorno). A fine maggio 2020, conseguentemente alla sospensione temporanea della sperimentazione sulla clorochina dell'OMS per dubbi sulla sicurezza del farmaco nei pazienti COVID-19, anche l'AIFA ha sospeso l'autorizzazione per l'utilizzo dell'idrossiclorochina al di fuori degli studi clinici (lo studio clinico che aveva suscitato dubbi sulla sicurezza della clorochina è stato poi ritirato per incongruenze nei dati) (The Lancet, 2020; Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020a). A luglio 2020, l’OMS ha interrotto la sperimentazione clinica di clorochina in un ampio studio clinico, il Solidarity Trial, per l'assenza di benefici sulla mortalità rispetto agli standard di cura (World Health Organization – WHO, 2020e).
Corticosteroidi
I corticosteroidi sono farmaci antinfiammatori efficaci, ma gravati da importanti effetti collaterali. Diversi studi clinici hanno evidenziato effetti positivi per alcuni di questi farmaci nel trattamento della polmonite da COVID-19 suggerendo un effetto di classe: l’ipotesi dei ricercatori era che la riduzione dell’infiammazione indotta dal farmaco riducesse il danno polmonare acuto e il rischio di sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) a cui andavano incontro i pazienti con l’aggravarsi dell’infezione virale. Uno studio retrospettivo cinese, condotto in pazienti con sindrome da distress respiratorio acuto da COVID-19, aveva riportato una riduzione significativa del rischio di mortalità con metilprednisolone (mortalità: 46% vs 62% rispettivamente con o senza corticosteroide, HR 0,38), sebbene, per ammissione degli stessi autori, lo studio avrebbe potuto avere elementi di distorsione/confondimento tra chi aveva ricevuto o non ricevuto la terapia corticosteroidea (Wu et al., 2020). Dati preliminari hanno indicato una riduzione del rischio di mortalità anche con desametasone, quando somministrato a basso dosaggio in pazienti con COVID-19, in particolare se sottoposti a ventilazione meccanica (riduzione del rischio del 35%) o ossigenoterapia (riduzione del rischio del 20%). (Oxford University, 2020). Tali dati sono stati poi supportati da quelli raccolti in studi randomizzati (Recovery e Solidarity) che hanno confermato il benefico clinico in termini di riduzione di mortalità nei pazienti trattati con ossigeno. Nello studio clinico Recovery, il tasso di mortalità è risultato più basso nei pazienti trattati con desametasone, rispetto al gruppo di controllo, sia in ventilazione meccanica (29,3% vs 41,4%) sia in caso di ossigenoterapia non invasiva (23,3% vs 26,2%) ma non nei pazienti che non necessitavano di supporto respiratorio (Recovery Collaborative Group, 2021). In una metanalisi prospettica relativa a sette studi clinici che ha esaminato l'efficacia terapeutica dei corticosteroidi in pazienti ospedalizzati critici per COVID-19, il rischio di mortalità assoluto con i corticosteroidi è risultato del 32% rispetto al 40% con le cure standard (Sterne et al., 2020) L'Agenzia Europea dei Medicinali, EMA, ha approvato l'uso del desametasone in pazienti adulti e nei ragazzi (età uguale o superiore ai 12 anni e peso corporeo di almeno 40 kg) che richiedono ossigenoterapia (inclusa la ventilazione meccanica) (Agenzia Italiana del Farmaco. AIFA, 2020d).
Eparine a basso peso molecolare
Le eparine a basso peso molecolare sono approvate per ridurre il rischio trombotico. I pazienti affetti da COVID-19 evidenziano un aumento degli eventi trombotici e microembolici. Inoltre, la lunga degenza a letto dovuta alla malattia, può nei pazienti a rischio (ad esempio le persone anziane) aumentare la probabilità che si verifichi venosi trombosa profonda. Già nei pazienti affetti da SARS e ZIKA, l'eparina aveva dato esiti positivi per trattare lo stato pre-trombotico associato alle infezioni virali. Nei pazienti COVID-19 i ricercatori hanno evidenziato elevate concentrazioni di D-dimero, marker di fibrinolisi, la cui presenza si accompagna a trombosi. Inoltre nelle indagini di imaging di questi pazienti si evidenziano segni di trombosi toracica e extratoracica. Per individuare il dosaggio migliore da utilizzare nei pazienti COVID-19 - sulla base dei riscontri clinici, il dosaggio generalmente utilizzato per la profilassi tromboembolica con enoxaparina (4000 UI) non sembrerebbe sufficiente per trattare pazienti con forme gravi di COVID-19- a maggio 2020, l'AIFA ha dato il via libera ad uno studio multicentrico, randomizzato per la valutazione di due diversi dosaggi di enoxaparina per la profilassi trombosi di pazienti ospedalizzati per COVID-19 (studio clinico X-Covid). I risultati hanno suggerito, come preferibile, un dosaggio medio/alto di eparina a basso peso molecolare in presenza di concentrazioni elevate di D-dimero (4-6 volte il valore normale), di ferritina (> 1000 mcg/L) o di obesità (indice di massa corporea >30) (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020d e 2021c).
Altri farmaci
Aviptadil
Aviptadil (RLF-100) è un analogo sintetico del peptide umano intestinale vasoattivo (VIP, vasoactive Intestinal Peptide). E' approvato nel Regno Unito, Danimarca e Nuova Zelanda per il trattamento della disfunzione erettile in associazione a fentolamina. E' il peptide più abbondante nel cervello: sembra svolgere un'azione protettiva verso sostanze neurotossiche e intervenire nei processi che regolano apprendimento e memoria. Nei tessuti periferici, il VIP agisce soprattutto a livello gastrointestinale, pancreatico e polmonare. Nel 2001, il VIP ha ottenuto la designazione di farmaco orfano dall'Agenzia americana Food and Drug Administration (FDA) per il trattamento della sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) e nel 2005 quella per il trattamento dell'ipertensione arteriosa polmonare. L'Agenzia europea dei medicinali (EMA) ha attribuito lo stesso tipo di designazione per il trattamento del danno polmonare acuto (2006) e della sarcoidosi (2007). Negli studi su modelli animali, il VIP ha evidenziato attività antinfiammatoria in caso di distress respiratorio, lesioni polmonari acute e infiammazioni. Il VIP agisce sulle cellule degli alveoli polmonari essenziali per gli scambi gassosi e caratterizzate da un numero elevato di recettori ACE2, porta di ingresso del virus SARS-CoV-2 nella cellula. A marzo 2021 l'azienda produttrice di aviptadil ha riportato i risultati a 28 e 60 giorni di uno studio di fase 2b/3 per la valutazione del farmaco nel trattamento dell'insufficienza respiratoria in pazienti critici per COVID-19 (NCT04311697). Si tratta di uno studio multicentrico, in doppio cieco, contro placebo, in cui aviptadil è stato somministrato per via endovenosa in aggiunta al trattamento standard (steroidi, plasma da convalescente, antivirali, anticoagulanti e farmaci anti-citochine). I pazienti sottoposti ad ossigenoterapia non invasiva (HFNC, High Flow Nasal Cannula) e trattati con aviptadil hanno evidenziato una probabilità di recupero più alta rispetto al gruppo di controllo dopo 28 giorni (71% vs 48% dei pazienti trattati con aviptadil vs placebo, p = 0,071) e dopo 60 giorni (75% vs 55%; p = 0,036) e una sopravvivenza più alta dopo 60 giorni (84% vs 60% rispettivamente con aviptadil o placebo; p = 0,007) (www.prnewswire.com).
Baricitinib
Baricitinib è un farmaco autorizzato in Italia per il trattamento dell'artrite reumatoide e della dermatite atopica nei pazienti adulti. Appartiene alla classe degli inibitore delle Janus chinasi, enzimi coinvolti nella trasduzione del segnale mediato dalle citochine.In particolare Baricitinib inibisce due enzimi, la chinasi 1 associata ad AP2 e la chinasi associata alla ciclona G, che regolano il processo di endocitosi, meccanismo con cui materiale extracellulare passa all’interno della cellula tramite la formazione di vescicole formate dalla membrana cellulare (Richardson et al., 2020).
In uno studio pilota condotto a marzo 2020 in pazienti ospedalizzati con polmonite da COVID-19 di grado lieve-moderato, baricitinib (4 mg/die per 14 giorni) è stato somministrato in associazione a lopinavir/ritonavir. Dopo due settimane, il quadro clinico e la funzione respiratoria erano migliorate nei pazienti trattati ma non nel gruppo di controllo (trattato con lopinavir/ritonavir e idrossiclorochina). Nessuno dei pazienti trattati è stato trasferito in terapia intensiva contro il 33% (4/12) dei pazienti nel gruppo di controllo (p=0,093). Dopo 2 settimane la percentuale di pazienti in terapia con baricitinib dimessi è stata del 58% contro l’8% del gruppo controllo (p=0,027) (Cantini et al., 2020). In un altro studio di piccole dimensioni, condotto in pazienti ospedalizzati (20 pazienti trattati e 56 pazienti di controllo), baricitinib è stato associato ad un tasso di mortalità inferiore (5% vs 45%), sebbene l'incidenza della sindrome da distress respiratorio e il numero di giorni di ospedalizzazione non abbiano evidenziato differenze tra i due gruppi di trattamento. I pazienti in terapia con baricitinib hanno manifestato una normalizzazione più rapida dei livelli di proteina C reattiva (marker di infiammazione), un aumento più veloce della capacità di ossigenazione del sangue e un recupero più veloce della funzionalità polmonare (riduzione del ricorso all'ossigenoterapia). Inoltre, analizzando in dettaglio la risposta del sistema immunitario, il farmaco è risultato associato ad una più marcata riduzione delle interleuchine 6 e beta e del TNF-alfa, ad un più rapido recupero delle frazioni circolanti di linfociti T e B e ad una maggiore produzione di anticorpi diretti contro la proteina spike del virus SARS-CoV-2. Dal punto di vista della tollerabilità, la somministrazione di baricitinib non ha comportato un aumento del rischio di infezione o di trombosi (Bronte et al., 2020).
In un altro studio prospettico, condotto in pazienti con polmonite severa da COVID-19, baricitinib (8 mg/die per 14 giorni) è risultato stabilizzare la funzione polmonare, ridurre il ricorso a supporti di terapia intensiva e di riospedalizzazione (Hasan et al., 2021). In uno studio randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo, in pazienti ospedalizzati con polmonite da COVID-19 in terapia con ramdesivir, l’aggiunta di baricitinib (2-4 mg/die a seconda della funzionalità renale, per 14 giorni) ha ridotto il tempo di recupero (esito clinico primario), ha aumentato la probabilità di miglioramento clinico (+30% dopo due settimane) e ha indotto una minor incidenza di eventi avversi gravi (Goletti, Cantini, 2021).
Bevacizumab
Bevacizumab è un anticorpo monoclonale anti-VEGF (fattore di crescita delle cellule endoteliali vascolari) approvato per il trattamento di alcuni tumori. VEGF è considerato uno dei più potenti induttori di permeabilità vascolare e sembra giocare un ruolo chiave nella sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) e nel danno polmonare acuto (ALI, Acute Lung Injury). In uno studio a singolo braccio, condotto su 26 pazienti arruolati presso due centri, uno cinese e uno italiano, bevacizumab è stato associato ad un marcato miglioramento della funzionalità polmonare. I pazienti con COVID-19 severo presentavano al basale polmonite, una frequenza respiratoria =/> 30 volte/min e una saturazione dell'ossigeno a condizioni ambientali =/< 93% oppure un rapporto PaO2/FiO2 compreso tra 100 e 300 mmHg. Dopo 28 dall'inizio del trattamento con bevacizumab, aggiunto alla terapia standard, il 92% dei pazienti hanno evidenziato un miglioramento nell'ossigenazione e il 65% è stato dimesso; nessun paziente ha evidenziato un peggioramento dello stato di ossigenazione o è morto. Nei primi sette giorni di terapia è stata riscontrata una riduzione delle lesioni polmonari (verificate tramite tomografia computerizzata o radiografia) e il 93% dei pazienti con febbre (13/14) ha manifestato normalizzazione della temperatura corporea entro 72 ore (Pang et al., 2021).
Ivermectina
L'ivermectina è un antiparassitario. In Italia è approvato nella formulazione in crema per il trattamento topico della rosacea papulo-pustolosa nei pazienti adulti. Non ci sono evidenze scientifiche chiare che supportino l’impiego dell’ivermectina come farmaco anti COVID-19, ma nonostante l’assenza di dati di efficacia, alcuni paesi dell'America Latina hanno utilizzato il farmaco nei pazienti affetti da COVID-19 (Mega, 2020).
In vitro l’ivermectina, aggiunta a cellule infettate da SARS-CoV-2, ha ridotto in maniera significativa (5000 volte) i livelli di RNA virale in 48 ore (Caly et al., 2020), ma gli esiti delle sperimentazioni cliniche (uno studio randomizzato e controllato e alcuni studi osservazionali) hanno dato risultati dubbi (Ahmed et al., 2021; Rajter et al., 2021; Camprubi et al., 2020; Szente Fonseca et al., 2020; Khan et al., 2020).
Nello studio controllato con placebo, l'ivermectina è stata valutata in monoterapia (12 mg/die per 5 giorni) o in associazione a doxiciclina (12 mg di ivermectina più 200 di doxiciclina il giorno 1 seguiti da 100 mg di doxicilina ogni 12 ore per 4 giorni) in pazienti ospedalizzati per COVID-19. Non sono state osservate differenze tra i gruppi trattati e il gruppo placebo in termini di sintomi clinici (febbre, tosse, mal di gola) nei primi 7 giorni. E' stata riscontrata una più rapida eliminazione del virus (clearance virale) rispetto al placebo con la sola ivermectina (9,7 giorni vs 12,7 giorni; p=0,02), ma non quando associata a doxicilina (11,5 giorni; p=0,27) (Ahmed et al., 2021).
In uno studio di coorte retrospettivo è stato osservato un tasso di mortalità inferiore nel gruppo di pazienti trattato con ivermectina rispetto al gruppo trattato con la terapia standard (15,0% vs 25,2%; p=0,03) e nel gruppo di pazienti con polmonite severa trattato con l'antiparassitario (38,8% vs 80,7%; p=0,001), ma senza differenze significative nella percentuale di pazienti che hanno sospeso la ventilazione meccanica (36,1% vs 15,4%; p=0,07) (Rajter et al., 2021).
Nitazoxanide
La nitazoxanide è un antielmintico che ha evidenziato in vitro attività verso il virus della MERS e verso SARS-CoV-2 (Rakedzon et al., 2021). In uno studio prospettico non controllato di piccole dimensioni nitazoxanide è stata somministrata a pazienti ambulatoriali, ospedalizzati e in donne in gravidanza o nell'immediato puerperio. I pazienti con COVID-19 ambulatoriali (16) trattati con il farmaco sono tutti guariti. I pazienti ospedalizzati (59) hanno evidenziato benefici clinici e di questi due hanno cessato la ventilazione meccanica. Nel gruppo delle donne in gravidanza (17) o in puerperio (3), due sono decedute (Meneses Calderon et al., 2020). Sulla base dei dati disponibili (esiguo numero di pazienti trattati e tasso di mortalità relativamente alto), la nitazoxanide non è raccomandata nel trattamento del COVID-19.
Raloxifene
Il Raloxifene appartiene al gruppo dei farmaci “modulatori selettivi dei recettori per gli estrogeni” (SERM, selective estrogen-receptor modulator) ed è approvato in Italia nel trattamento e nella prevenzione dell'osteoporosi nelle donne in post-menopausa. In anni recenti il raloxifene è risultato efficace nel trattamento di infezioni causate da virus a RNA quali ebola, influenza A ed epatite C. Questo ha indotto i ricercatori a verificare la possibilità di attività antivirale anche verso SARS-CoV-2 (Hong et al., 2021). In seguito alle indicazioni di efficacia virtuale evidenziate utilizzando una piattaforma di calcolo dedicata (Exscalate), a ottobre 2020 l'Agenzia Italiana del Farmaco ha dato il via libera ad uno studio clinico per valutare l'impiego di raloxifene in pazienti con COVID-19 con sintomatologia lieve.
Ruxolitinib
Ruxolitinib è un farmaco approvato in Italia per il trattamento della mielofibrosi (malattia in cui il tessuto fibroso sostituisce progressivamente le cellule del midollo osseo) e della policitemia vera (tumore mieloproliferativo). Ruxolitinib interferisce con la via di trasduzione cellulare di diverse citochine e fattori di crescita importanti per la produzione delle cellule del sangue (ematopoiesi) e per la funzione immunitaria. In particolare ruxolitinib è un inibitore sellettivo degli enzimi JAK1 e JAK2 della via delle Janus chinasi.
In diversi studi clinici, in cui ruxolitinib (10-25 mg/die) è stato impiegato per uso compassionevole in pazienti gravi con polmonite da COVID-19, i ricercatori hanno osservato una riduzione significativa dei biomarcatori di infiammazione con miglioramento della funzione polmonare (riduzione della necessità di ossigenoterapia) e della sopravvivenza (Mortara et al., 2021; Kaplanski et al., 2021; D'Alessio et al., 2021; Gozzetti et al., 2020).
Sarilumab
Sarilumab è un anticorpo monoclonale approvato per il trattamento dell'artrite reumatoide. Come tocilizumab, è un antagonista del recettore per l'interleuchina-6, citochina coinvolta nel processo infiammatorio, i cui elevati livelli sono stati messi in correlazione con un peggioramento più veloce della malattia COVID-19. Negli studi clinici il sarilumab ha evidenziato benefici clinici nel migliorare la sopravvivenza e ridurre la richiesta di supporto per la funzionalità polmonare. L’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato l’uso del sarilumab in alternativa al tocilizumab (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2021. 2021g).
Umifenovir
Umifenovir è un antivirale approvato in Russia e in Cina (specialità medicinale Arbidol) per la profilassi e il trattamento dell'infezione da virus influenzale A e B. Il farmaco non è approvato in Europa e negli USA.
L'umifenovir inibisce l'interazione tra la proteina S virale e il recettore di membrana cellulare ACE2 impedendo l'ingresso del virus nella cellula (blocca la fusione tra membrana cellulare e l'involucro esterno del virus) (Kadam et al., 2017).
Ricercatori cinesi hanno testato l'umifenovir in pazienti affetti da COVID-19, in associazione ad altri farmaci. In uno studio non randomizzato, pazienti ospedalizzati trattati con umifenovir (36/67 alla dose di 0,4 g tre volte al giorno) per una media di 9 giorni hanno evidenziato tassi di dimissioni più alti rispetto ai pazienti non trattati (33% vs 19%). Inoltre, i casi fatali sono stati registrati solo nel gruppo di pazienti non trattato con l'antivirale (Wang et al., 2020a). Sulla base dei dati sperimentali ottenuti durante la prima ondata pandemica di COVID-19, la Cina ha inserito l’umifenovir nelle linee guida per il trattamento della malattia (paziente adulto: 200 mg per via orale, tre volte al giorno, per una durata massima della terapia di 10 giorni) (Dong et al., 2020). Poiché i dati scientifici disponibili relativi all'uso di questo farmaco sono pochi e di qualità scientifica non elevata, l’AIFA non ha ritenuto opportuno seguire le orme della Cina (Agenzia Italiana del Farmaco – AIFA, 2020).